American Fiction

American Fiction **1/2

Thelonious “Monk” Ellison è uno scrittore afroamericano che tiene un corso di letteratura degli stati del sud in una università californiana.

I suoi studenti ipersensibili, dopo un paio di episodi controversi, si lamentano con il rettorato e Monk viene sospeso e inviato a Boston, dove è nato e dove vive la sua famiglia, ad un festival del libro, in congedo forzato.

Il suo ultimo lavoro, I persiani, è rifiutato dalla casa editrice che da lui si attende qualcosa di più “autenticamente razziale”, magari nello stile crudo e realista di Sintara Golden, il cui libro d’esordio, We’s Lives In Da Ghetto, è diventato un caso editoriale.

La scrittrice è presente naturalmente al festival e Monk assiste ad una delle sue presentazioni: un campionario dei peggiori stereotipi della vita degli afroamericani, fra padri assenti, droga, miseria metropolitana e riscatto dignitoso.

Nel frattempo la sorella medico muore improvvisamente davanti ai suoi occhi, la madre si scopre malata di Alzheimer e il fratello chirurgo plastico, dopo un coming out omosessuale, ha perduto moglie e studio professionale.

Su tutta la famiglia pesa l’ombra del padre ginecologo, infedele e anaffettivo, che si è suicidato molti anni prima.

L’incontro con Coraline, un avvocato d’ufficio che vive di fronte alla casa familiare e le spese importanti e impreviste per le cure e il ricovero della madre, spingono Monk, quasi per gioco, a scrivere di getto, sotto pseudonimo, un romanzo nello stile che piace agli editori bianchi di New York. Prima lo intitola My Pafology, quindi per alzare il tiro ancora di più, una volta che viene entusiasticamente accolto da una casa prestigiosa, insiste per il più diretto e volgare Fuck.

Il primo film del giornalista e sceneggiatore Cord Jefferson, noto soprattutto per aver condiviso con Damon Lindelof la scrittura dell’epocale versione televisiva di Watchmen, ha vinto il prestigioso premio del pubblico all’ultimo Toronto Film Festival, diventando immediatamente un piccolo caso cinematografico, almeno al di là dell’oceano.

La commedia di Jefferson è particolarmente intelligente, perché riesce a mescolare nelle giuste dosi la dimensione più esplicitamente satirica con quella familiare.

American Fiction è infatti il tentativo di ironizzare con gusto sulla deriva dei cultural studies dentro e fuori l’università, sulla fragilità di studenti che si sentono offesi da qualunque cosa, incapaci di contestualizzare e storicizzare, nonché sulla cultura di strada afroamericana, che l’industria ha immediatamente fagocitato e reso cliché stucchevole e ruffiano.

Monk vorrebbe solo essere uno scrittore, senza aggettivi razziali, eppure da lui le case editrici si aspettano un certo tipo di proposte e i suoi libri vengono esposti nella sezione dedicata agli afroamericani.

La mania di dare etichette e patenti a tutti, travolge il suo desiderio di essere uno studioso a tutto tondo.

Nel film è particolarmente significato il suo confronto con la celebrata Sintara Golden, che vede immediatamente i difetti e la superficialità in Fuck, ma difende con le unghie il proprio We’s Lives In Da Ghetto, frutto di ricerche e studi approfonditi, da parte di chi ha sempre vissuto lontanissima dal mondo cupo che descrive.

E’ sempre una questione di travi e pagliuzze: Monk non può che prendere atto della doppia morale e arrendersi.

La burla concepita in un momento di sconforto personale e professionale, si trasforma in una conferma dei suoi peggiori incubi, che Hollywood si incarica di ingigantire ancora di più, aggiungendo nuovi livelli di superficialità.

“I bianchi non vogliono la verità vogliono solo sentirsi assolti”.

Il paradosso messo in atto da Jefferson è proprio quello di raccontare l’assurdità del successo di Fuck, all’interno di quella che appare invece una storia afroamericana borghese, ma autentica.

Il film è sostanzialmente la storia di Monk, della sua famiglia, del rapporto con i genitori e i fratelli, delle sue relazioni sentimentali e dei suoi incontri professionali. Un racconto senza sangue, pistole e crack, senza slang, rap e melodramma.

American Fiction è evidentemente un film di scrittura, che lascia alla regia un ruolo marginale, di pura messa in scena, secondo il principio dell’invisibilità del cinema classico americano.

In un cast decisamente indovinato in cui ogni faccia sembra al posto giusto e in cui Sterling K.Brown si assicura il ruolo più divertente, quello del fratello cocainomane, che deve recuperare il tempo perduto nella sua eterosessualità di facciata, Jeffrey Wright è impeccabile nel ruolo di Monk, vittima alla fine delle sue bugie e del suo distacco affettivo, ma a cui il film regala un finale hollywoodiano decisamente dolceamaro.

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