Il cielo brucia

Il cielo brucia ***1/2

Il decimo film di Christian Petzold, Orso d’Argento a Berlino a febbraio scorso, rappresenta il secondo capitolo di una nuova trilogia sentimentale che nell’essenzialità degli elementi trova il suo sostrato simbolico e ideale.

E così dopo l’acqua di Undine c’è il fuoco di questo  Il cielo brucia, che deve molto al cinema di Rohmer e alla prosa di Pavese, almeno quanto al dimenticato  Uomini di domenica, scritto da Billy Wilder nel 1930 per Ulmer e Siodmark, prima del loro esilio.

Siamo in una località del Baltico nel profondo nord tedesco. In una casa immersa nel bosco, ma a due passi dal mare, gli amici Leon e Felix vogliono passare alcuni giorni in solitudine: il primo per completare il suo romanzo, intitolato Club Sandwich, il secondo un portfolio fotografico.

La macchina li lascia a piedi in mezzo alla natura e quando faticosamente riescono a raggiungere la casa dei genitori di Felix, si accorgono che c’è già qualcun altro. E’ una ragazza di nome Nadja, a cui la madre di Felix l’aveva già promessa da tempo.

La sua è una presenza sfuggente e misteriosa: le notti sono rumorosamente piene dei suoi amplessi con sconosciuti visitatori, ma le giornate trascorrono nell’attesa del suo ritorno.

Mentre Felix approfitta del mare e della spiaggia, Leon cerca di concentrarsi sul suo lavoro, ma in realtà divaga, spia, si distrae, rapito dalle piccole cose di Nadja.

I suoi incontri con lei finiscono sempre in uno scontro.

L’amante notturno si rivela essere il bagnino della spiaggia, Devid, che pare però più interessato a Felix che a Nadja.

L’arrivo nella piccola località di mare di Helmut, l’editore di Leon, coincide con l’avanzare degli incendi che minacciano la sicurezza dei villeggianti.

Scritto e ideato durante la lunga convalescenza durante il primo lockdown e pensato per Paula Beer, nuova musa del regista tedesco dopo la fine della lunga collaborazione con Nina Hoss, Il cielo brucia ha una struttura semplice, lineare e questa volta non intende interrogare la Storia, ma piuttosto i sentimenti dei suoi personaggi.

Leon in particolare sembra riassumere su di sé una serie di fragilità e difetti molto comuni nel nostro tempo. Inguaribile narcisista, preso solo da sé stesso e dalle sue necessità, capace di sminuire gli altri e il loro lavoro con quell’atteggiamento passivo-aggressivo che lo rende in effetti del tutto incapace vedere la realtà e di interpretarla correttamente, mostra una superiorità intellettuale che si scioglie immediatamente alla prima critica.

Geloso degli amanti di Nadja e poi delle buone idee dell’amico Felix, insensibile al malore dell’editore e alle sue innocenti bugie, Leon è incapace di accettare il giudizio degli altri e quando sembra fidarsi della donna di cui si sta innamorando ne rigetta le critiche, sminuendole per quelle di una semplice gelataia.

Il suo progressivo avvicinamento a Nadja nasce costantemente da passi sbagliati, goffi, inappropriati. Eppure per Leon Petzold disegna un percorso di cambiamento, di maturazione, che lo costringe a fare i conti con il fallimento, la perdita e il dolore: quello vero, non quello evocato nel suo brutto romanzo.

Com’è giusto che accada in una commedia sentimentale, ai suoi personaggi il regista lascia la possibilità di migliorare. Ed è proprio quando Leon smette di vedere il mondo solo attraverso la lente del suo egoismo, che il suo lavoro di scrittore diventa significativo, si apre alla realtà e la trasfigura. Contemporaneamente si fa strada in lui una maturità affettiva nuova.

Il cielo brucia pur nel suo tono lieve e misterioso, non cancella le asprezze. La dimensione fiabesca è meno evidente rispetto a Undine, anche se la casa nel bosco e l’incendio lontano sono già elementi di una realtà piegata simbolicamente alle esigenze narrative del racconto.

Anche questa volta la scrittura gioca un ruolo chiave, ma il tono è giocoso, leggero, merito in gran parte della caratterizzazione del protagonista Leon, un personaggio che – pur con tratti moderni – sembra uscito da una commedia americana degli anni ’30.

Petzold costruisce un film di atmosfere, di assenze e di attese. Magistrale come introduca il personaggio di Nadja senza fretta, lasciandolo fuori campo o in campo lungo per un tempo che pare infinito, mentre la casa dove si svolge quasi tutto il film sembra non parlare altro che di lei.

Con la sua grande capacità di creare tensione dal non detto e di evocare sentimenti da pochi particolari sfuggenti, con la sua maestria nel mostrare come la geografia dei luoghi diventi elemento essenziale nelle vite dei suoi personaggi, Petzold ci regala un altro piccolo, grande film, che indaga le ferite che le persone si infliggono continuamente, quasi senza rendersene conto.

Forse Il cielo brucia non ha la profondità morale de La scelta di Barbara o le vertigini temporali de La donna dello scrittore e non contiene neppure quella lectio magistralis sul ruolo storico e antropologico della stratificazione architettonica e urbanistica di Berlino che è il vero tesoro di Undine, ma pur su un registro meno articolato, conferma il talento prodigioso di Petzold nell’evocare un romanticismo non privo di ironia e malinconica accettazione delle proprie fragilità.

Paula Beer è come al solito sublime, prima come una sorta di fantasma notturno, poi sempre più presente e quindi decisiva. La macchina da presa sembra ‘innamorata’ di lei, del suo corpo minuto, del suo sorriso imperfetto, non meno di quanto accada a Leon nel film. Basterebbe la scena in cui discute e poi recita due volte l’Asra di Heine a tavola per cogliere la magia di questo nuovo incontro con Petzold.

Interessante invece la scelta dell’austriaco Thomas Schubert per il ruolo dell’aspirante scrittore: la sua fisicità ingombrante, un po’ impacciata segna anche simbolicamente la sua distanza dall’esile Nadja ed è davvero indovinata.

Il viaggio sentimentale di Petzold questa volta si tiene distante dal tragico, pur incontrando la morte e la malattia. Nella grande commedia della vita tutto diventa racconto, scrittura, immagine.

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