L’ultima volta che siamo stati bambini **1/2
Fin dalle prime inquadrature il film ci introduce in tono vivace tra i vicoli di Roma, nel ghetto ebraico, dove Cosimo (Alessio di Domenicantonio), Italo (Vincenzo Sebastiani), Riccardo (Lorenzo Mc Govern Zaini) e Vanda (Carlotta de Leonardis) si trovano a giocare insieme e, dopo aver superato l’iniziale diffidenza reciproca, formano una piccola banda in nome del gioco della guerra, che li accomuna e li rende amici. Giocare vuol dire passare il tempo, prepararsi alla vita, liberare le energie, ma per questi bambini vuol dire anche trovare uno spazio di libertà: per Vanda dal desiderio frustrato di venire adottata e lasciare l’orfanotrofio dove vive; per Italo dal senso di inadeguatezza rispetto al fratello eroe di guerra e al padre, segretario Federale fascista; per Cosimo dal senso di oppressione e di solitudine per la madre morta e il padre al confino; per Riccardo dal peso di essere diverso dagli altri, di essere un ebreo. Problemi che finiscono per scomparire, almeno per qualche ora, giocando tra i vicoli di Roma a lanciare sassi con la fionda agli aerei militari che rombano in cielo e a sparare con fucili di legno ai fantocci di stracci dei nemici catturati. Un patto di sputo sigilla l’amicizia e l’impegno a venirsi in aiuto l’un l’altro, superando ogni differenza, ogni invidia, ogni piccola baruffa. Così quando Riccardo scompare misteriosamente e i bambini scoprono che è stato portato in Germania con i genitori, allora è il momento di unire le forze e partire, guidati da Italo e dal suo sogno di un’impresa eroica: spiegare ai tedeschi che hanno commesso un errore e riportare l’amico a casa. Suor Agnese (Marianna Fontana) e Vittorio (Federico Cesari), il fratello maggiore di Italo, eroe di guerra in congedo, si mettono alla ricerca dei ragazzini. Ricerca non facile perché i fuggitivi riescono a salire su un treno merci, guadagnando diversi chilometri sui loro inseguitori, che finiscono peraltro per essere catturati e scambiati per disertori proprio dai soldati fascisti. Serve un miracolo per salvarli dalla fucilazione imminente…
In genere pensiamo all’infanzia con nostalgia, come all’età della spensieratezza, rimuovendo il fatto che anche i bambini affrontano problemi, spesso tutt’altro che semplici. Non servono necessariamente malattie gravi o tragedie familiari per complicare l’infanzia, a volte basta sentirsi incompresi o venire emarginati, specie se l’ambiente in cui vivi è di per sé tutt’altro che facile. In un contesto di guerra, oggi come negli anni ’40 del secolo scorso, la differenza tra gli adulti e i bambini non sta in quello che devono affrontare, perché il tema della morte, della mancanza di cibo, dell’incognita sul futuro è comune; quello che cambia è il modo di affrontare le difficoltà, la possibilità dei bambini di fuggire in un mondo fantastico e di sublimare la durezza della quotidianità nel gioco. Quando essi perdono questo potere e il reale schiaccia la fantasia e annienta il gioco, di fatto finisce l’infanzia. Ed è questo che cerca di raccontare L’ultima volta che siamo stati bambini.
Il primo lungometraggio filmato da Claudio Bisio si inserisce in un filone ben definito che a suo modo rappresenta un sotto genere a se stante all’interno dell’ampio flusso di film dedicati all’Olocausto: quello che tratta l’argomento dalla prospettiva dei bambini. Esempi pluripremiati sono il film di Benigni La vita è bella e The Boy in the Striped Pajamas di Mark Herman. Per la sceneggiatura, curata insieme a Bonifacci (Si può fare, Loro chi?), Bisio si è basato principalmente su un libro di Fabio Bartolomei, edito da Edizioni e/o, L’ultima volta che siamo stati bambini appunto. Possiamo trovare degli spunti narrativi, diretti o indiretti, anche ne La guerra dei bottoni di Louise Pergauld e nel bel libro di Joseph Joffo, Un sacchetto di biglie.
Dal punto di vista cinematografico si percepiscono anche altre influenze che fanno da modello alla seconda grande ancora narrativa del racconto e cioè il tema del viaggio di avventura/formazione: sotto questo aspetto sono immediati i riferimenti a Stand By Me (pensate ai binari del treno e al primo contatto fisico con la morte) e a The Goonies (per l’amicizia portata fino all’estremo). Se questi sono i riferimenti tematici, dal punto di vista strettamente tecnico ci sembra preponderante lo stile narrativo già adottato da Benigni in La vita è bella. La scelta stilistica alla base del film è la ricerca della semplicità, nella trama come nella regia che non punta sull’originalità, ma sulla chiarezza e l’essenzialità, sebbene alcune prospettive appaiano fini e se stesse e come tali motivate solo da esigenze estetiche.
La musica accompagna, sottolinea, guida lo spettatore così come la fotografia che tende al realismo prediligendo toni vivaci. Lo stesso può dirsi per i dialoghi, semplici, diretti, qualche volta forse un po’ scontati, ma nel complesso credibili, soprattutto per quanto riguarda i bambini. Più affettati quelli che coinvolgono la coppia di adulti, il cui ruolo, prevalentemente comico, soffre quando il registro passa al tono drammatico. Da rimarcare il lavoro dei tecnici, in particolare dei costumisti, con alcune chicche deliziose, come il costume da Balilla sommozzatore di Italo.
Il film presenta un forte valore emozionale che per lunghi tratti riesce a produrre l’effetto sperato grazie ad un ottimo cast, in particolare per i piccoli protagonisti: Vincenzo Sebastiani, Alessio di Domenicantonio, Carlotta de Leonardis, Lorenzo Mc Govern Zaini offrono un’interpretazione che sorregge al meglio lo spirito dolceamaro della narrazione.
La loro spontaneità e alchimia li rende davvero capaci di emozionare lo spettatore che, complici costumi e scenografia ben fatti e una musica avvolgente, anche se a tratti un po’ troppo enfatica, si lascia andare con piacere alla narrazione, superando agevolmente i diversi clichè sparsi qua e là e quel sapore di politicamente corretto che risulta interessante solo a livello sociologico. La performance dei bambini appare più convincente di quella della coppia Federico Cesari-Marianna Fontana, che soffrono una scrittura poco efficace per la parte drammatica del racconto. I due rappresentano, sotto la rispettiva uniforme, due mondi diversi, a cui appartengono con dubbi e lacerazioni personali: se la contrapposizione basta per la parte comica, per quella drammatica serve un approfondimento che invece manca .
Come detto per larghi tratti è piacevole abbandonarsi alla visione, trascinati dalla freschezza delle vicende dei bambini, ma quando la parte drammatica acquista maggior rilevanza qualcosa si incrina e la narrazione finisce per prestare il fianco al senso del nostro tempo e all’esigenza di una conclusione che rappresenti in modo iconico la fine dell’infanzia dei protagonisti. Nel corso del film ci sono peraltro momenti che sintetizzano meglio del finale il respiro della tragedia e della drammatica deportazione degli ebrei del 16 ottobre 1943. Le poche parole su carta, un elenco di punti da assolvere, come una lista della spesa che i bambini trovano esplorando la casa ancora piena di vita della famiglia di Riccardo sono un esempio di quanto il cinema possa esprimere in poche rarefatte immagini.
L’esordio di Bisio ha la capacità di parlare alle generazioni in modo trasversale, lasciando a tutti qualche spunto di riflessione e mantenendo un non facile equilibrio sul crinale sottile e dolceamaro che separa la commedia dal dramma.
