The Burial

The Burial *

La sconosciuta Maggie Betts, regista di questo modestissimo legal drama para televisivo, ispirato ad una storia vera, è la figlia di uno dei migliori amici di George W.Bush, ai tempi dell’università e poi della sua esperienza come co-owner dei Texas Rangers. La sua vocazione artistica e sociale pare sia stata ispirata dalla frequentazione con la first lady Laura Bush e dal lavoro con diverse organizzazioni umanitarie.

Almeno questo è quanto riporta la sua biografia sulla pagina inglese di Wikipedia, che in assenza di grandi exploit cinematografici si sofferma su elementi che francamente lasciano il tempo che trovano e alimentano più di qualche sospetto.

Ed è proprio sul tempo invece, quello rubato agli spettatori di questo The Burial, che bisognerebbe soffermarsi a riflettere.

Il film che esce su Amazon prime con il logo glorioso della MGM è un film che sarebbe sembrato vecchio, telefonato e paternalista anche nel 1995, ovvero l’anno in cui la storia è ambientata. Trent’anni dopo pare realmente una sorta di oggetto non identificato: un brutto straight to video recuperato da qualche fatiscente videoteca Blockbuster abbandonata.

Quante volte ormai abbiamo visto la lotta dell’outsider contro il grande capitale in un’aula giudiziaria, dove l’avidità del secondo si trasforma in un boomerang che espone le storture di un sistema che sfrutta l’ignoranza e le difficoltà della povera gente, come dell’onesta classe media lavoratrice e delle minoranze, per arricchirsi in modo osceno?

Giusto un milione di volte, sì.

Nel primo angolo del ring – o meglio dell’aula giudiziaria – troviamo l’eroe di guerra e democratico del sud, Jeremiah O’Keefe, padre di tredici figli e nonno di ventiquattro nipoti, che si è costruito una posizione con le onoranze funebri e le assicurazioni sui funerali.

Nel secondo invece un canadese sbruffone, Ray Loewen, uno squalo che ha costruito la sua fortuna nel settore, acquistando tutte le attività in difficoltà e creando così un enorme oligopolio con poche altre corporation della sepoltura.

Quando O’Keefe si trova in difficoltà per alcuni debiti contratti prestando fede ad un truffatore, viene spinto dal suo bianchissimo avvocato Mike Allred a rivolgersi a Loewen per un accordo commerciale con cui rimettersi in piedi, senza vendere tutte le sue otto funeral home.

Solo che Loewen non ha alcuna intenzione di prestare fede al contratto ed aspetta solo che i debiti mandino in bancarotta O’Keefe per prendere le sue attività ad un prezzo di saldo.

Quando O’Keefe si affida ad un pittoresco avvocato nero specializzato in danni e lesioni, Willie E. Gary, il suo avversario si fa rappresentare da una rampantissima avvocata afroamericana, Mame Downes: le questioni razziali finiscono così per giocare un ruolo anche nel giudizio.

Il finale lo potete immaginare, vero?

Costantemente indeciso sui toni, con deviazioni nella commedia di costume, che tolgono ogni suspense al racconto, The Burial è altresì incapace di mantenere il processo nell’ambito di un piano strettamente tecnico, facendone invece un palcoscenico di istrionismi teatrali tanto inverosimili quanto sempre più grotteschi.

In un anno che ci ha regalato il formidabile trittico francese Saint Omer, Anatomia di una caduta e Il processo Goldman, capace di restituire tutta la drammaticità e il pathos del conflitto d’aula, mantenendo un rigore e un acume psicologico formidabile, assistere alla messa in scena parrocchiale di The Burial provoca ribrezzo e sconcerto.

Anche perchè coinvolge attori altrove formidabili come Jamie Foxx e Tommy Lee Jones – in verità l’unico a mantenere la sua dignità – e buoni caratteristi come Bill Camp e Jurnee Smollett, qui incapaci di restare a gallo in un copione che la Betts ha scritto addirittura con il premio Pulitzer e vincitore del Tony, Douglas Wright, evidentemente impegnato a fare altro quando ha partorito questo scempio.

Non parliamo poi di come è raccontata e inserita nel film la questione razziale: con la delicatezza di un elefante in una cristalleria.

La ricostruzione d’ambiente è affidata ad un paio di cravatte sgargianti, la fotografia smarmellata è di Duccio Patané e Biascica della francese Maryse Alberti, un tempo formidabile partner di Haynes, Solondz e Aronofsky, ma dal 2015 impegnata in una serie di film di pura committenza, illuminati evidentemente ad occhi chiusi.

Cosa si salva in questo film di cui si può scrivere la storia dopo cinque minuti, in tutte le sue svolte? Nulla.

Lasciate perdere. Tempo buttato.

E tu, cosa ne pensi?

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