Hit Man

Hit Man ***1/2

Si dice che sia stato Richard Linklater a rifiutatare il concorso di Venezia 80 per accomodarsi fuori gara con il suo divertentissimo giallo rosa Hit Man, un film che si muove con il passo veloce di una screwball per raccontare la storia “quasi vera del vero Gary Johnson“.

Il suo film avrebbe in realtà meritato ampiamente un posto d’onore, perché è un lavoro che ne conferma pienamente il genio eclettico, la leggerezza benedetta e una capacità di abitare i generi con mano sicura e felice.

Linklater sembra sempre più l’ultimo erede di quella idea di cinema che ci hanno regalato Hal Ashby e Jonathan Demme: anche lui è un regista capace di attraversare i generi e farli propri, di assimilare i modelli del passato per trarne una lezione utile nel presente, di guardare con curiosa benevolenza i suoi personaggi capaci di trasformare l’ordinarietà della vita in qualcosa di straordinario.

Gary Johnson è un professore di filosofia all’Università di New Orleans. Gli studenti pensano sia uno sfigato che guida una Civic e la sua vita ha preso una piega malinconica quando la moglie l’ha abbandonato, lasciando solo con due gatti chiamati Io ed Es.

Le sue abilità in campo tecnico lo spingono a collaborare con la polizia locale, al fianco degli agenti provocatori e sotto copertura.

Quando l’agente Jasper, che si finge un killer a contratto per incastrare i possibili mandanti, viene sospeso per 120 giorni dopo aver picchiato due ragazzini senza motivo, i colleghi scelgono provvisoriamente Gary per sostituirlo, nonostante sia un civile.

Sul campo Gary ci prende gusto, studia la personalità dei clienti di questi particolari servizi criminali, si immedesima ogni volta in un diverso personaggio e riesce a chiudere una serie impressionante di arresti.

Quando tuttavia l’incantevole Madison Figueroa gli chiede di sbarazzarsi del marito abusivo e violento, Gary – che interpreta un killer di nome Ron – la dissuade dai suoi propositi criminali, salvandola dall’arresto e spingendola a rifarsi una vita da sola.

Gary si è innamorato di lei e Madison ricambia i suoi sentimenti, credendo di trovarsi di fronte ad un misterioso hitman.

La verità finirà per venire allo scoperto, ma il marito della donna muore per davvero: chi è il colpevole?

Il film di Linklater è una commedia degli equivoci orchestrata e impaginata in modo magistrale: i personaggi si muovono secondo logiche che conosciamo, ma lo fanno così bene da convincerci della bontà del trucco ancora una volta.

La commedia vive sempre di una impalpabile magia: sappiamo di essere ingannati, ma lo accettiamo volentieri purché il gioco sia eseguito in modo impeccabile.

Il copione scritto da Linklater con il suo attore Glen Powell, a partire da un articolo omonimo del Texas Monthly firmato da Skip Hollandsworth, è impeccabile, divertentissimo, intelligente, punteggiato dalle digressioni del prof. Johnson e dalle sue lezioni sul senso della giustizia.

Linklater ragiona intelligentemente sulla figura del sicario, mostrandone la costruzione fasulla che il cinema ci ha tramandato, giocando sui suoi cliché, smontandone e rimontandone l’iconografia con un gusto sublime.

Non solo, ma attraverso il suo Gary Johnson, ci porta a ragionare sulle maschere che utilizziamo continuamente nella nostra vita, nelle bugie che alimentiamo su noi stessi, e che finiscono per costruire un’identità parallela e spesso sovrapposta a quella iniziale.

Il film sfrutta la verve del suo protagonista belloccio, costruendogli addosso i panni dell’uomo comune che interpreta un ruolo fuori dall’ordinario, violento e implacabile:  i tempi comici sono sempre indovinati e per il resto c’è il fascino di Adria Arjona, che dimostra anche una dimensione comica inaspettata, nonostante abbia avuto sinora ruoli quasi solo action, da Triple Frontier a 6 unerground, da Morbius a True Detective e Andor.

Come accade spesso, a Linklater bastano pochissimi elementi, in questo caso davvero minimi, appena otto personaggi e due gatti in un pugno di interni, per costruire uno spazio cinematografico in cui ciascuno sembra muoversi con pertinenza.

Gioioso divertissement sentimentale, il film è uno spasso che non vuole neppure convincerci della stupidità imprevedibile della vita come accade ai Coen quando si cimentano cinicamente nella commedia. A Linklater in fondo i suoi personaggi interessano davvero e questa volta può anche permettersi il più fasullo dei lieto fine, perché in fondo chi non lo vorrebbe per i suoi due protagonisti?

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