Lo scrittore Johannes Leinhart è ospite di un talk show televisivo a metà degli anni ’70 per presentare il suo romanzo di fantascienza, La teoria del tutto, ma di fronte alle domande e all’umorismo del conduttore sembra avere un crollo: “E’ tutto vero, non è finzione. Karin dovunque tu sia contattami”.
Dodici anni prima ritroviamo Johannes studente di fisica ad un passo dalla laurea, mentre discute la sua tesi con il prof. Strathen, durante il viaggio verso le alpi svizzere per un convegno che dovrebbe ospitare un misterioso fisico iraniano. Sul treno i due incontrano il Prof. Henry Blomberg, che si è passato in passato al nazismo e ora appare un tipo eccentrico, di cui Strathen diffida.
Johannes invece trova in lui una sponda accademica per la sua teoria sulla funzione d’onda universale, che invece il suo professore ritiene del tutto priva di fondamento scientifico.
Sulla montagna vivono i bambini Johnny e Susi che nel corso di un’escursione hanno scoperto una botola all’interno di un fienile che porta verso profondità misteriose.
Il fisico iraniano non arriverà mai al convegno, ma Johannes conoscerà la pianista del complesso jazz che allieta le serate nel gran hotel alpino: Karin sembra conoscere cose di lui che che nessuno sa, gli predice eventi del suo futuro ed esercita sullo studente un fascino irresistibile e sfuggente.
Quando Blomberg viene ritrovato morto con il cranio fracassato e Karin sparisce, Johannes si mette sulle loro tracce, alla ricerca di una spiegazione che non troverà mai e che resterà sepolta nel cuore della montagna, attraversato dalle caverne di una vecchi miniera di uranio.
Il film di Kroger, girato da Roland Stuprich in un panoramico bianco e nero denso e crepitante come se ci trovassimo davvero negli anni ’60, ad eccezione del prologo televisivo in beta 4:3, è un romanzo d’orrore che mescola suggestioni antiche e moderne con un gusto per il cinema di genere piuttosto gustoso.
Siamo dalle parti di Twilight Zone o della serie Dark, per trovare un riferimento più recente, ma con un animo che unisce le moderne declinazioni dei multiversi alla fisica quantistica, il piacere fanciullesco per la fantascienza più misteriosa con la malinconia di un’ossessione maledetta che sarebbe piaciuta a Lynch.
Il regista sembra costruire il suo film con spirito autenticamente popolare, chiamando anche in causa il terribile cinema italiano di serie B degli anni ’60, figlio dei Bava e Fulci, a cui il protagonista affida la trasposizione del suo romanzo.
Ovviamente la tesi di Johannes, il suo sfortunato destino accademico e le implicazioni più serie non sono che un mcguffin che muove l’azione, il film propone più domande che risposte, senza tuttavia lasciare la sensazione di barare.
In questo hotel immerso nella neve che sembra un Overlook Hotel in cui il tempo sembra scorrere in modo diverso e in cui si può morire brutalmente e risorgere, tutto sembra plausibile e diventa materia narrativa, dal racconto orale, al romanzo, dal metacinema all’adattamento popolare, fino alla tv in una continua mise en abyme.
La parte sentimentale è quella su cui poggia il film e quella che rende empatico il protagonista e credibile la sua ossessione. Il bianco e nero e la suggestiva ambientazione alpina, un po’ fuori dal tempo, contribuisco al fascino di un lavoro indubbiamente riuscito e insolito, che scava nel nostro inconscio di spettatori.

