Maestro

Maestro **

Un’opera d’arte non risponde alle domande, ma le suscita. E vive nella tensione tre le risposte contradditorie che provoca. 

L’epigrafe che apre Maestro, il nuovo film scritto, diretto e interpretato da Bradley Cooper è bellissima. Peccato che il film non abbia che un’ombra della complessità che l’inizio sembra evocare.

Prodotto da Scorsese e Spielberg, tra gli altri, su un copione a cui ha collaborato il premio Oscar Josh Singer (Spotlight, The Post, Firts Man, West Wing, Fringe), Maestro non è tanto un film su Leonard Bernstein compositore e direttore d’orchestra, sulla sua figura pubblica, sulle sue riflessioni accademiche, sull’impegno inesausto di divulgatore televisivo, sul suo impegno politico, quanto piuttosto un film sull’uomo, sulle sue debolezze, sul rapporto tumultuoso con la moglie Felicia Montealegre Cohn, un’attrice di origini cilene, che sposò nel 1951 e da cui ebbe tre figli pur essendo sempre stato omosessuale.

La prima locandina del film, che riprende proprio Felicia di spalle è decisamente più evocativa del titolo, che fa riferimento ai suoi successi musicali.

Il film comincia dalla famosa telefonata del novembre 1943 quando Bernstein fu chiamato a sostituire il direttore Bruno Walter, dirigendo per la prima volta la New York Philharmonic alla Carnegie Hall.

Quella mattina nel letto con lui c’è un altro musicista, il clarinettista David, con cui condivideva il piccolo loft newyorkese. A casa della sorella qualche anno dopo conoscerà Felicia, decidendo  di sposarla dopo un primo ripensamento.

Il film attraversa i loro anni assieme, con le crisi inevitabili, gli eccessi, le separazioni, i pettegolezzi e le bugie da raccontare ai figli Jamie, Nina e Alex, per mantenere un’apparenza familiare se non felice, almeno coesa.

Il film evita qualsiasi didascalia attraversando cinquant’anni di storia con poche indicazioni e riferimenti anche in quei rari momenti musicali, come le prove in palcoscenico di Our Town e una lunga e brillante esecuzione del Maestro costruita su un bellissimo dolly senza stacchi attorno ad una esecuzione della seconda sinfonia di Mahler con la London Symphony nella cattedrale inglese di Ely.

Cooper, con lo spirito di un cronista da rotocalco scandalistico, si è concentrato sulla relazione amorosa appassionata ma ondivaga tra i due protagonisti e sull’omosessualità del Maestro tenuta nascosta all’opinione pubblica.

Il risultato è un film piccolo piccolo, che sfiora solamente la grandezza e la complessità del personaggio, schiacciandolo in una dimensione sessuale e familiare che appare francamente diminutiva rispetto al valore di uno dei più grandi musicisti del Novecento.

Cooper si conferma regista iperconservatore, capace di un cinema tutto emotivo, piegato sulle performance attoriali, in primis la sua:  il suo è un lavoro che invece di mostrare la genuina passione per il il patrimonio musicale e culturale lasciato dal Maestro, fruga nella sua camera da letto.

Il film è un polpettone paratelevisivo, che cambia dal bianco e nero al colore senza motivo apparente e lascia solo il desiderio di sapere di più di Bernstein dimenticando le sue ansie personali.

Se Cooper è almeno generoso ed esuberante nei panni del protagonista, trasferendo al pubblico almeno la passione delle sue performance sul palco e nel privato, la Mulligan interpreta il solito personaggio malmostoso, bigotto e pieno di rimorsi in cui pare voglia rinchiudere la sua carriera, una volta decisamente più interessante.

Produce e distribuisce Netflix. Non una gran perdita per le sale.

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