La meravigliosa storia di Henry Sugar, Il cigno, Il derattizzatore, Veleno

La meravigliosa storia di Henry Sugar *

Il cortometraggio di quaranta minuti che Wes Anderson ha scritto e diretto per Netflix è un altro di quegli esercizi di stile che da troppo tempo caratterizzano la sua filmografia, tanto cesellato e impeccabile nel décor, nei costumi e nella palette visiva, quanto  privo di vita e di necessità, da lasciare sconcertati.

Si tratta fondamentalmente di una lettura illustrata del racconto di Dahl da cui prende il titolo, che comincia con lo scrittore al suo surreale tavolo di lavoro e poi si addentra come in una matriosca nella storia dentro una storia, per raccontare la ricchezza e la fortuna di Henry Sugar, che grazie a un quaderno blu trovato nella libreria di un amico, scopre il potere della meditazione e attraverso l’esercizio e la concentrazione riesce a vedere senza davvero usare gli occhi, come insegnato da uno yogi indiano.

Essendo già ricco e appassionato di gioco, Henry userà questa abilità per vincere a carte cifre impensabili, destinandole a opere di bene e carità.

Interpretato da Benedict Cumbebatch nel ruolo principale, da Ben Kingsley e da Ralph Fiennes nei panni dello stesso Dahl, il film è un compendio manierista dell’ossessione di Anderson per la cartapesta, per lo sfondo disegnato per la la messa in scena da teatro del liceo. I suoi piani sequenza sono sempre più articolati, perfettamente organizzati sulla consueta simmetria centrale dei personaggi, il gioco si fa esplicito e per cinque minuti si sorride compiaciuti. Poi si finisce per passare dall’ammirazione al tedio, quando ci si accorge per l’ennesima volta che al regista interessa solo realizzare i suoi origami visivi, impeccabili, ma privi di vita.

Il suo cinema si è ridotto a maniera da troppo tempo e la bulimia produttiva di questo ultimo periodo non sembra aiutarlo a scegliere meglio i suoi soggetti. Spesso la possibilità di fare prende il posto dell’urgenza e della necessità.

Anderson non ha più nulla da dirci, ma ci tiene lo stesso a comunicarcelo, anche perchè proprio ora sembra trovare maggior ascolto.

Gli incassi modesti di Asteroid City segnalano però una stanchezza, in chi non riesce più a distinguere il vero Anderson dalle parodie dell’A.I. del suo lavoro.

Deludente.

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Su Netflix nei giorni successivi all’uscita di questo Henry Sugar, sono approdati altri tre cortometraggi di diciassette minuti l’uno, tutti ispirati ad altri racconti di Dahl.

Il cigno è sostanzialmente una lettura illustrata del testo del grande narratore, con Rupert Friend oggetto delle attenzioni di due bulli, che lo legano e lo stendono sui binari, in attesa del treno e da cui riesce a fuggire poeticamente solo grazie alle ali di un cigno.

Il derattizzatore invece ha come protagonista Ralph Fiennes nei panni del derattizzatore del titolo, che mostra le sue abilità con le diverse specie di topi, al meccanico che l’ha chiamato.

Veleno invece vede Benedict Cumberbatch immobilizzato sul letto per non subire il morso mortale di un serpente che si è addormentato sul suo stomaco. Ad aiutarlo Dev Patel e il medico indiano Ben Kingsley, che prima gli somministra l’antidoto, poi cerca di anestetizzare col cloroformio il serpente.

Dei tre Il cigno pur nella sua verbosità insopportabile assume almeno la dimensione poetica del racconto originale, mentre Veleno è l’unico che nella sua essenzialità narrativa e nella suspense creata dal pericolo imminente, ma invisibile e quindi completamente astratto, sembra avere una sua efficacia che il finale brusco colora con inediti toni cupi e razzisti.

Rispetto ad Henry Sugar o ad Asteroid City il discorso però non cambia. Siamo di fronte ad un Anderson che ha quasi sempre messo da parte i sentimenti, preferendo concentrarsi sul suo mondo pastello, lasciando da parte l’umanità calda e affettuosa con cui raccontava i suoi personaggi.

Tutto perfettamente controllato, tutto cesellato sino a smussare ogni angolo, tutto irrimediabilmente arido e privo d’interesse. Se persino dei corti di diciassette minuti inducono allo sbadiglio e poi al fastidio, c’è qualcosa che non torna più.

Il cinema di Anderson si è perduto nei rivoli di una messa scena tanto impeccabile e ricercata, quanto incapace di produrre senso.

Il suo non è più cinema, è modellismo.

E tu, cosa ne pensi?

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