Inatteso e sorprendente, il nuovo film di Luc Besson è dedicato ad un outsider alla Arthur Fleck, un rifiuto della società che trova nei suoi cani randagi una ragione di vita e un alleato prezioso, nel tentativo di redistribuire ricchezze e raddrizzare soprusi, in un New Jersey, quasi interamente ricostruito in studio e in interni, che pare l’anticamera dell’inferno: Dogman sembra provenire da un altrove che il regista non frequentava dai tempi di Leon, Subway e Nikita.
Il film comincia dalla fine, quando Douglas, vestito da donna e sporco di sangue viene fermato alla guida di un camion al cui interno ci sono decide di cani.
La psichiatra chiamata di corsa per interrogarlo, lo aiuta pian piano a raccontare la sua storia. Il film segue con lunghi flashback il corso di questo lungo interrogatorio, ricostruendo l’infanzia infelice del ragazzo in una famiglia in cui il padre e il fratello più grande vivono addestrando cani da combattimento. Quando Doug si affeziona agli animali, finisce nella gabbia con loro. La madre fugge cercando un destino diverso e abbandonando il bambino ai suoi animali.
E’ grazie ad uno di questi cani che Doug, dopo essere stato colpito dal padre col fucile, perdendo un dito e rimanendo quasi paralizzato dalla vita in giù, riesce a far arrestare i suoi due aguzzini.
Il passaggio nelle case famiglia viene rischiarato solo da una giovane attrice, che gli insegna il valore della lettura, del teatro.
Inchiodato sulla sedia a rotelle, attorniato solo dagli animali fedeli del suo canile, Doug è vittima di una speculazione edilizia comunale: costretto così a rintanarsi in una high school abbandonata, finirà per sopravvivere facendo la drag queen in un locale e amministrando una sorta di giustizia poetica nel quartiere grazie ai suoi cani, abilissimi e invisibili ladri di gioielli e killer implacabili di criminali senza scrupoli.
Il film di Besson è cupo, millenaristico, tutto costruito sulla performance totale di Caleb Landry Jones, che ha modo di trasformarsi molte volte grazie ad una capacità istrionica, in cui tuttavia la sua recitazione finge di restare quasi sempre sottotono, dimessa, come il suo personaggio.
Il suo Douglas spesso vestito come le dive del passato che imita sul palco di un locale di drag queen, è un fratello ideale del Joker di Phillips o dell’Uomo di Vetro dell’Unbreakable di Shyamalan, ma qui la dimensione superomistica è infine rigettata, in un finale cristologico, non meno potente della rivolta che chiude il primo e della rivelazione scioccante che chiude il secondo.
La passione di Doug è un percorso di umiliazione, sofferenza, riscatto solo attraverso la lealtà dei suoi animali. Tuttavia nell’incontro con la psichiatra, da poco madre, il protagonista sembra trovare un’insospettabile alleata e un testimone a cui passare in qualche modo la torcia, in nome del dolore.
Il film ha le stesse ambiguità e gli stessi limiti dei suoi epigoni, sul ruolo della violenza, su un certo spirito reazionario e revanscista, sul modo un po’ manipolatorio in cui gioca con le attese del suo pubblico e in cui costruisce la parabola del suo personaggio: tuttavia la generosità impressionante dell’interpretazione di Jones già premiato a Cannes nel 2021 per Nitram, sembra revocare interamente ogni discussione pur legittima, in un abbraccio emozionale che travolge.
Besson evidentemente se n’è accorto, cucendo il film a misura del suo protagonista-mattatore e innestando una dimensione identitaria fluida, arricchendo il suo personaggio di uno spazio anche performativo sul quale costruire nuovi livelli interpretativi.
Il film è tanto furbo quanto indubbiamente efficace e coinvolgente ed è in ogni caso, per Besson, un ritorno ad un cinema forse povero di mezzi, ma ricco di idee.
“Partout où il y a un malheureux, Dieu envoie un chien”
Dal 5 ottobre in sala.


[…] Dogman […]