Una regola arcinota nell’impostazione dei codici di sicurezza: mai utilizzare la data di nascita propria o di un parente stretto. Owen, il gestore del villaggio in stile Far West di Yucca Valley, California, non la conosce. E purtroppo non conosce neanche la seconda: mai utilizzare un codice che avete fornito ai vostri dipendenti (ad esempio per inserire o disinserire l’allarme) come combinazione di una cassaforte. Magari la strampalata Peggy Newman non vi ruberà i soldi, ma la sua collega, l’esuberante Tammy, probabilmente sì, perché Tammy ha bisogno di quei tremila dollari per rifarsi il seno e riconquistare così l’attenzione del suo uomo, Bob Guru, che ultimamente è un po’ distratto.
No, se ve lo chiedete, non è questa la trama principale di High Desert, serie AppleTv+. Semplicemente, High Desert non ha bisogno di una trama per esistere. Certo, la serie segue le vicende tragicomiche e picaresche di Peggy Newman, paffutella donna di mezza età costretta a sbarcare il lunario lavorando come figurante nel parco a tema di Owen. Meglio dire, per rispetto delle intenzioni più o meno dichiarate degli autori, che High Desert è una serie ritagliata attorno a Patricia Arquette, attrice irresistibile anche quando recita sopra le righe. Le avventure e disavventure di Peggy sono un assist fornito ad Arquette per scatenarsi. La sua performance comica, cinica, a tratti surreale, deborda dallo schermo.
La prima scena della serie è ambientata nel 2013. Peggy a quel tempo era una donna molto ricca. Grazie al traffico di droga. I “maiali in blu”, ovvero gli agenti della DEA (ecco, il linguaggio di Peggy e di suo marito Denny è “colorito”) fanno irruzione nella villa della famiglia Newman durante una festa di compleanno. Dieci anni dopo Denny, interpretato da un arzillo Matt Dillon, è ancora in galera e lei è in disgrazia. Peggy si aggrappa all’ultimo ricordo della vita di allora, la villa finemente arredata che era di sua madre, morta da poco. Suo fratello Roger e sua sorella Dianne sono di altro avviso. Indifferenti alla nostalgica malinconia di Peggy, vorrebbero vendere la casa per rientrare dai debiti accumulati.
Intanto Peggy, che si affida a un programma di disintossicazione con alterne fortune (in realtà, non appena ne ha la possibilità, butta giù pasticche di acido), scopre una passione inaspettata.
Peggy non ha bisogno di studiare per diventare investigatrice privata (a proposito, i corsi obbligatori nella biblioteca comunale di Yucca Valley non sono propriamente entusiasmanti). Peggy è detective per indole e questo le basta. Il suo secondo datore di lavoro si chiama Brad Garrett, ha una macchina del caffè molto invitante e un magazzino pieno di merce sospetta. Non avevamo forse detto che la trama è quanto mai esile?
Il primo caso di Peggy riguarda… Bob Guru, il fidanzato di Tammy. Peggy riceve un video dalla sua odiata collega. Un frame galeotto rivela un Picasso sul muro. Vuoi vedere che Bob, ex anchorman di una televisione locale caduto in (apparente) depressione per la scomparsa della moglie e riciclatosi, appunto, come guida spirituale dei ricchi scemi della California, è un trafficante di opere d’arte, per la precisione di quadri di cui si sono perse le tracce perché rubati dai rispettivi musei? O sarebbe meglio pensare a una versione sofisticata dei fatti, vedi alla voce falsificazione?
La trama scivola spesso in un nonsense che manda fuori di testa, eppure giudicheremmo troppo severamente High Desert se non riscontrassimo, nelle ricorrenti citazioni di Peggy (dai telefilm anni Ottanta a Sylvia Plath) sfumature colte, simpaticamente deliranti, che puntano a vari bersagli. High Desert si fa beffe del salutismo pseudo hippy, del politically correct, dell’ignoranza dell’americano medio e della nevrosi del perbenismo, nel segno di un puro e disincantato divertimento. La serie è anche una satira dei nostri tempi, malati di nostalgia per un passato più inventato che autentico. Pionertown, una riproduzione di una città del West, ricostruita a uso e consumo dei turisti, è assolutamente ridicola e improbabile (dimentichiamoci i sofisticati filosofemi di Westworld).
F come Fake, diceva qualcuno. Falsi sono i quadri, rifatte le parti del corpo da mettere in mostra, fino al colpo di genio, un’attrice che è la sosia, o forse il clone, della defunta madre di Peggy. Finge anche Bob.
La parte del Guru è stata assegnata a Rupert Friend. Probabilmente neanche questo è un caso. Nel mondo della serialità, l’attore britannico sarà per sempre associato all’agente segreto Peter Quinn di Homeland. In High Desert il bravo Friend sembra nascondersi dietro un’altra maschera. E, in questa situazione inedita, se la spassa alla grande. Bob è un uomo sconvolto dal suicidio di un suo collaboratore e, sotto la spinta degli allucinogeni, convertito a una vita diversa. Ormai libero dalla schiavitù delle regole professionali, il conduttore di tg, fino a qual momento osannato dagli spettatori, può finalmente vedere una disgrazia (un tizio sprofondato in una voragine apertasi nel cortile di casa…) sotto un’altra luce. “Perché è stata inserita tra le notizie se tutti, prima o poi, dobbiamo morire?”, domanda alla co-conduttrice. Bob è licenziato e può dedicarsi in perfetta malafede a una nuova missione, anzi due: fregare i creduloni e piazzare opere di Cezanne e Picasso, dipinte dalla moglie (si ricordi, scomparsa) in cambio di assegni a sei zeri.
Per fortuna c’è Peggy, che oltre a riconoscere la pennellata di un’impressionista da quella di un post impressionista e a cimentarsi in inappuntabili lezioni sul significato di spazio e tempo nel cubismo, è bravissima nello smascherare le truffe. A ben pensarci, truffe troppo ridicole per essere prese sul serio.
Un pappagallo di nome Lionel Richie ospitato in un bordello, una ragazzina depressa affascinata dall’uso voyeuristico dei droni, una coppia di malviventi formata da un padre e una figlia che fanno gara a chi è più sadico… Nessuno, nemmeno i personaggi minori, sfugge alla regola della follia. La serie vive di situazioni comiche e di dialoghi surreali, a volte tagliati in due da un cinismo sulfureo, una scure cui non scampa nemmeno il povero Aristotele con la sua Poetica.
Peggy è la primatista indiscussa della battuta. Un piccolo campionario, tratto dal sesto episodio: “Posso usare il vostro bagno senza rischiare di morire o di restare incinta?” / “Quello non è un saluto, quello è un cenno col capo che significa fanculo” / “Brunilde, puoi cercare di calmarti?” / “Non possiamo parlare senza fare bondage?”
Si cavalcano gli equivoci. Il mantra “il denaro arriva facilmente”, suggerito da Carol per superare un momento di difficoltà, è interpretato da Peggy come un invito a spacciare acidi fuori da una sala bingo per ricavare qualche spicciolo per giocare.
Si inventano sketch. Se l’investigatore Bruce Harvey, emotivamente fragile, tentenna davanti ai dollari offerti dalla sua dipendente a parziale compensazione dei debiti contratti (meglio non chiedersi da quali strani giri venga fuori il bottino), allora non ha senso sorprendersi se alla fine Peggy sgombera il tavolo dai soldi per rimetterseli in tasca. Non prima, naturalmente, di aver bevuto l’ennesima tazza di caffè a scrocco.
Si gioca con gli stereotipi dell’immaginario pop. “Sembri la versione carina di Henry Kissinger”, dice Denny, nel frattempo uscito di galera (e per nulla convinto di divorziare), a commento degli occhiali, con registratore incorporato, indossati da sua moglie.
Intanto Denny si affida all’amicizia di un cane, particolarmente abile nel rintracciare dita umane sepolte nel deserto, e scopre un mondo nuovo: il Qi Gong. Chi di noi non si abbonerebbe a un corso online di meditazione, debitamente girato al rallentatore per farlo sembrare più autentico?
Come a Palm Spring il tempo è sempre uguale e le scimmie sono ipnotiche, anche la serie, da par suo, è incastrata in un dispositivo comico che alla lunga mostra un po’ la corda. Vada per l’anarchia gioiosa di Patricia Arquette e per le prove stralunate dei suoi compagni di strada, i citati Dillon, Friend, e vada per il brio di tutti gli altri, Bernadette Peters, Weruche Opia, Brad Garrett, Jeffrey Vincent e Christine Taylor, ognuno ben calato nei panni del proprio personaggio. Tuttavia, manca un piccolo passo per rendere l’insieme davvero solido e apprezzabile, al di là della superficiale godibilità.
A quando il salto, viene da chiedersi. A quando la catarsi, per restare in sintonia con Peggy. Sì, proprio la catarsi, il fine ultimo della rappresentazione scritta da Peggy per arricchire PioneerTown di un nuovo numero. Salvo scoprire che Ginger, la sosia di sua madre, ha preso confidenza con il progetto fino a stravolgerlo. “È solo un pitch, sai cos’è un pitch?”, le chiede, rivelando allo spettatore l’anima metanarrativa di High Desert.
Ogni momento sembra quello buono. Quello, cioè, in cui Peggy e gli altri smettono di recitare per guardare fissi in camera e dirci “ok, dai, era tutto uno scherzo”. Perché è chiaro che High Desert si regge su un patto di stravaganza, accettare l’imprevedibilità senza nulla pretendere se non lo svago della canzonatura. L’ironia, magari azzeccata, magari meno, prevale sempre sul demenziale. Nella piega assurda degli eventi troviamo la caricatura di un mondo idiota.
Dietro High Desert, in veste di produttore, c’è Ben Stiller, che con Jay Roach, regista degli otto brevi episodi, aveva lavorato in Ti presento i miei. Jay Roach va ricordato anche per l’ottimo L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo. Peggy Newman è un incrocio tra Trumbo e Austin Powers, il personaggio dei più noti film di Roach: ostinata e resistente alle avversità come il primo, macchiettistica e surreale come il secondo. Peggy è una figlia della controcultura, si imbarca in trip lisergici, avverte familiarità con i pungenti fiori di cactus, ha un debole per le perquisizioni corporali e conosce il trucco per trasformare un’auto da berlina a cabrio… in una sola, astuta manovra. Peggy, soprattutto, ha uno straordinario fiuto per il crimine, scova casi dove nessuno metterebbe mai il naso e segue le piste meglio di un segugio. Antieroina sboccata e intelligente, Peggy è una donna affranta, scollegata dalla realtà, in cerca di pace.
Arquette adatta il personaggio alle sue corde di attrice versatile in tutti i generi. High Desert è un Escape at Dannemora (protagonista la stessa Arquette con Stiller alla regia) imbevuto nell’acido. Prendere o lasciare. E state attenti a non staccare assegni scoperti. Potreste perdere una parte preziosa del vostro corpo.

Titolo originale: High Desert
Numero di episodi: 8
Durata: 25-30 minuti l’uno
Distribuzione: Apple Tv+
Uscita in Italia: 24 maggio – 28 giugno 2023
Genere: Black Comedy
Consigliato a chi: ha un autografo di Frank Sinatra, si vuole liberare dalla tirannia della percezione, negozia dove andare a cena al primo appuntamento.
Sconsigliato a chi: fa strani incontri alle fermate degli autobus, pensa che aprire un solarium nel deserto sia un buon investimento, è perseguitato dai truffatori telefonici di Bombay.
Letture e visioni parallele:
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Delirante e visionario, l’ultimo capolavoro tradotto in italiano del compianto Cormac McCarthy: Il passeggero, Einaudi, 2023.
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Apocalittico e per nulla integrato, il diario del giornalista Ben Ehrenreich: Taccuini del deserto. Istruzioni per la fine dei tempi, Atlantide, 2021.
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Adorabile e strampalato, l’ultimo film con il grande Harry Dean Stanton: Lucky di John Carroll Lynch, 2017, disponibile su Mubi.
Un compositore: Richard Wagner.
Un capo di abbigliamento: il kimono.
Un consiglio: provate il petto di manzo.

