La seconda avventura del contractor invincibile Tyler Rake è un abisso di nulla che pare scritto da un dodicenne afflitto da una grave dipendenza da videogame sparatutto.
Costruito in maniera quasi matematica su tre lunghe sequenze d’azione di circa mezz’ora l”una precedute da inutili spiegoni di un quarto d’ora in cui far riposare occhi e orecchie, ma anche il cervello evidentemente, questo nuovo film dell’ex stuntman Sam Hargrave potrebbe terminare degnamente dopo i primi quarantacinque minuti. E anche con una certa soddisfazione.
Il killer, ripresosi a stento dall’ultima avventura e messo a riposo in uno chalet isolato in mezzo alla neve dai suoi amici mercenari, i fratelli Nik e Yaz, viene infatti assoldato da una misteriosa organizzazione per esfiltrare da un carcere georgiano di massima sicurezza Ketevan e i suoi due figli piccoli, Sandro e Nina.
Ketevan è la sorella della ex moglie di Tyler ed è la moglie di uno dei Negazi, due fratelli criminali, Davit e Zurab, che governano nei fatti la repubblica ex sovietica.
Davit infatti, messo in prigione per volere degli americani, si è portato dietro la sua famiglia, costringendo moglie e figli a condividere il regime carcerario.
Fuori Zurab cerca di farlo uscire, proteggendolo dalle aggressioni di altre bande.
Quando Tyler, assieme a Nik e Yaz, fa irruzione nel carcere, finisce per uccidere Davit, provocando così la vendetta del fratello.
Dopo un inizio strappalacrime, tra ospedale, risveglio dal coma e precoce pensionamento, in un mese e mezzo, Tyler Rake si rimette in forma con i metodi usati da Stallone in Rocky IV.
Fortunatamente la grande fuga dal carcere georgiano è l’unico momento dignitoso del film, che ripete l’exploit in (finto) piano sequenza del primo capitolo.
Questa volta l’azione comincia con l’ingresso di Rake nel carcere, prosegue con una battaglia uno contro tutti nello spazio a cielo aperto della prigione in rivolta, prosegue con un inseguimento in automobile, quindi continua su un treno merci attaccato dagli elicotteri dei Negazi che finisce per deragliare al suo arrivo.
L’exploit di stunt sensazionali e computer grafica a rendere invisibili suture e a mascherare sbavature e inquadrature impossibili è indubbiamente riuscito.
Peccato che il film finisca sostanzialmente qui. Quello che accade dopo è del tutto inutile. Con tradimenti, nuova azione questa volta frammentata come in un film di Greengrass, nuove pause piene di dialoghi idioti e un finale risibile in una chiesa, quasi che si volesse infine omaggiare persino John Woo, ma senza slow motion e colombe.
Tanto rumore di nulla si direbbe, parafrasando il Bardo. Hargrave vorrebbe il suo suo John Wick personale, così come quello creato dai colleghi stuntmen Leitch e Stahelski, ma il film è un action troppo generico e impalpabile per creare realmente un personaggio.
Il fatto che sia una produzione Netflix peggiora le cose: Tyler Rake è solo un carattere indistinto nell’offerta sempre più inqualificabile e modesta della società fondata da Hastings, la cui dimensione cinematografica si è già ampiamente ridimensionata a quello che una volta era lo straight-to-video. Un costosissimo straight-to-video a dire il vero.
Al netto di poche, limitatissime eccezioni, che ormai si contano sulle dita di una sola mano per ogni stagione.
Che dietro a questo film di Hargrave ci siano poi i fratelli Russo, produttori e Joe anche sceneggiatore, ci consente di misurare fino in fondo il loro presunto talento: dopo l’impegno quinquennale alla Marvel con Cherry, The Grey Man, Citadel, City of Crime, Tyler Rake e EEAAO si sono rivelati del tutto incapaci di generare una qualsiasi riflessione critica, fosse anche sui modi e le forme di quel cinema action, che pure li ha visti assoluti protagonisti nell’ultimo decennio.
Un altro regalo avvelenato delle soap Marvel.

