Quanto può essere pericolosa una lite stradale? Il mondo delle serie lo sa… e non da oggi. Un esempio estratto dal baule dei ricordi: nella prima stagione di Breaking Bad, un arrogante bellimbusto dell’alta finanza soffia il parcheggio all’indimenticabile Walter White (interpretato dal monumentale Bryan Cranston). Il signor White, alias Heisenberg, in un primo momento somatizza l’accaduto, poi, complice la distrazione altrui, coglie l’attimo giusto per vendicarsi. L’auto del tizio va in fiamme nei pressi di un distributore, certamente non per cause fortuite. Era il 2008, l’anno del crollo della Lehman Brothers. Da allora, in America come ovunque, la rabbia è cresciuta. Il mondo delle serie sa anche questo, altrimenti non avremmo Beef.
Nello slang dell’hip hop il termine beef equivale a insulto, a presa in giro, a sberleffo. La mancanza di rispetto, condita da volgarità e, perché no, oscenità, è elevata ad arte. Le rime rinfacciano al nemico i suoi torti, veri o presunti, senza esclusione di colpi. Negli anni Novanta il dissing praticato dalle scene della East e della West Coast trascese di livello e divenne faida, lasciando dietro di sé una scia di rapper morti ammazzati. Il beef è tracimato dalle arene infuocate dell’hip hop, ha invaso la società e può essere considerato il motore dialettico del nostro tempo, il sintomo della tendenza a non voler (o saper?) comunicare, basti pensare ai salotti televisivi e ai talk show politici, quando, nell’estasi della rissa, gli invitati si parlano addosso.
Danny Cho e Amy Lau, i due protagonisti della serie, si sfiorano nel parcheggio di Forsters, una catena specializzata in articoli per la casa. Le auto non si toccano, ma un suono di clacson e un dito medio alzato sono elementi più che sufficienti per avviare l’alterco. Danny è reduce da una disavventura alle casse. Amy ha incontrato Jordan, la ricchissima proprietaria di Forsters. Danny ha tentato di restituire invano una spesa molto ingente, Amy avrebbe desiderato chiudere un affare con Jordan.
A questo punto Beef, che frulla gli stereotipi e gli stilemi del cinema con tarantiniana disinvoltura, introduce il classico car chase, l’inseguimento sulle strade della California. Amy sfugge a Danny, distruggendo un’aiuola. Qualcuno filma il gesto vandalico e lo mette in rete.
Beef è una serie coprodotta da A24, la giovane casa di produzione di The Lighthouse, Men, The Whale, Beau Is Afraid e il pluripremiato agli Oscar 2023 Everything, Everywhere All at Once, solo per citare alcuni film, recenti e recentissimi, non certo di nicchia, apprezzati dalla critica e amati da un pubblico lontano dai blockbuster. A24 ha anche distribuito, tra gli altri, Midsommar, Uncut Gems, First Cow e Minari, titoli importanti nel campo del cinema indipendente. In ambito seriale, si è distinta soprattutto per la controversa Euphoria e per l’ottima Irma Vep. A24 aggiunge sempre qualcosa di nuovo e di inedito, occupando un interessante fetta di mercato, a cavallo tra autorialità e ricerca stilistica. Beef non fa eccezione.
Inusuale, innanzitutto, è il contesto etno-sociale. Amy Lau, figlia di un cino-americano cresciuto nel Midwest e di un’immigrata vietnamita, è sposata con George, figlio di Haru Nakai, un quotato artista giapponese. Danny e Paul Cho, fratelli molto diversi per indole e ambizioni, sono di origini coreane. Occorre rilevare una prima frattura, che squarcia, con un taglio netto, il quadretto a tinte asiatiche. Il reddito modella gusti e prospettive, uniformandole verso un’unica direzione. La forza irresistibile del modello economico ed estetico dominante (e in Beef dominato, comunque, dall’élite bianca) provoca un’epidemia di infelicità individuale.
Danny è un improvvisato operaio tuttofare, segnato nell’umore dal fallimento dei genitori, tornati in Corea dopo aver ceduto il motel di proprietà a seguito di una disavventura giudiziaria. Il sogno di Danny è acquistare un terreno dove edificare una casa nuova tutta per loro. Paul, suo fratello, è uno svogliato nerd fissato con le criptovalute. A loro si aggiunge il cugino Isaac, grezzissimo traffichino appena uscito di galera che apprezza gli italiani perché hanno una mentalità… da penisola.
I “Chosen Ones”, nel mosaico multiculturale di Beef, sono i meno integrati, forza lavoro declassata e costretta dalle circostanze ad andare ad elemosinare lavoretti. A supporto dei coreani di seconda e terza generazione c’è una comunità, centrata su chiese e leader locali carismatici.
Nella cerchia dei ricchi, tuttavia non ricchissimi, rientrano i coniugi Nakai. Amy, proprietaria del negozio di piante Kōyōhaus (si noti la ricercatezza del nome nippo-tedesco: casa dei colori autunnali), rinfaccia al marito di essersi accontentato dell’eredità paterna e di doversi sobbarcare orari di lavoro massacranti per garantire alla famiglia, che comprende anche la piccola June, un reddito costante. George, scultore di vasi vagamente ispirati alle opere di Jeff Koons, con scarso appeal sul mercato, non sa distaccarsi dalla figura del padre artista, tanto da rifiutare l’offerta di Jordan, la miliardaria in procinto di comprare il brand Kōyōhaus, per la Tamago. “Il sacro graal delle sedie” è un’opera di design modellata da Haru Nakai… sulle natiche di sua moglie Fumi. La transazione potrebbe rimpolpare il conto corrente di Amy e George, messo a dura prova da un’onerosa ristrutturazione interna (“la casa che non posso godermi perché devo sempre lavorare”, dice Amy).
Beef è ambientata in prevalenza alle porte di Los Angeles, tra Orange County e le colline della San Fernando Valley. Ai margini di queste aree del benessere e della ricchezza anche estrema, si estendono i suburbs infiniti della metropoli, periferie punteggiate da villette anonime e strutture alberghiere degne di un racconto postmoderno. Le stratigrafie sociali sono visibili dalle case e dal modo in cui queste sono arredate.
Se l’interior design è marchio e confine, la gestione degli spazi è altrettanto significativa. Si va dalla confusione delle stanze dei Cho alla precisa ridefinizione degli ambienti, vagamente asettica, voluta da Amy e detestata dalla suocera. Fuori classifica, inarrivabili, le gigantesche stanze della villa-bunker di Jordan, adibite a museo per il puro godimento personale. Jordan colleziona copricapi appartenuti a principesse e regine di civiltà scomparse, non occidentali: un’operazione di appropriazione culturale che, a dire il vero, nessuno contesta. Culto del lusso, supremazia finanziaria e spiritualismo new age si fondono in una nuova religione edonistica, basata sull’affermazione incondizionata del sé.
Nel finale lisergico, complici bacche di piante… non commestibili, Amy coglie una verità. “Se non ti senti a casa da nessuna parte, ti ritiri in te stesso”. Ma cosa significa, oggi, sentirsi a casa? In Design. Una storia sbagliata (Armillaria Editore) l’architetto ed ecologo Maurizio Corrado sostiene che, con il tramonto di un’umanità esclusivamente sedentaria, l’idea stessa di abitare si trasforma. Se le pareti limitano la nostra ancestrale attitudine al movimento, allora occorre “dare spazio al divenire, al non finito”. In direzione ostinata e contraria vanno i vulnerabili protagonisti di Beef, chiusi nei loro gusci. Tendenza all’isolamento e invasione dell’altrui sfera privata sono nevrosi complementari.
Con una buona dose di cinismo, Beef centra uno dei drammi della nostra epoca: la progressiva perdita di controllo che deriva dalla sfiducia collettiva nel futuro.
In Nemici miei (Einaudi), la psicoterapeueta Nicoletta Gosio sostiene che l’attuale “straripante” rabbia sociale “ha assunto l’aspetto di una nebulosa indistinta in continua, disordinata espansione, dove l’autentica indignazione e una genuina volontà di opposizione e cambiamento risultano pesantemente inquinate da polveri sottili di invidia, malanimo, micro e macro-conflittualità, compresa un’intollerante suscettibilità personale, che rischiano di invalidare movimenti sani di revisione critica e opposizione alla degenerazione socioculturale in atto”. La rabbia è solo una reazione allo solitudine ed è fluida, vischiosa, difficile da eliminare. In Beef è perfino possibile che Amy e Danny, in una scena esilarante, si coalizzino contro un malcapitato autista, solo per convogliare altrove il proprio malcontento.
Il rancore dei protagonisti non si spiegherebbe senza la depressione che determina le loro scelte. Il tradimento di Amy con Paul in tutte le sue fasi di maturazione, dal catfishing al fatto compiuto, e dall’altro lato la truffa perpretrata da Danny nei confronti della comunità religiosa coreana, di cui diventa addirittura il capo, sono tragicommedie umane giocate sul palscoscenico di un male oscuro (certo, l’autoerotismo con pistola è un’idea geniale…)
La ricchezza è un’armatura ideologica e il merito un argomento specioso. Quanta America, anzi, quanto di noi c’è in Beef! Nel secondo episodio, Amy sfregia con la vernice bianca il camioncino di Danny. Non so guidare, sono povero, sono un coglione. La povertà rientra tra le tare, forse addirittura genetiche, del prossimo? Nel quinto episodio, Amy si sente insultata da Paul, che ritiene di poter salire al suo livello se solo avesse da lei un piccolo prestito, e lo caccia via dopo aver consumato con lui un rapporto (e Paul in quel momento ancora non sa delle sue domande di ammissione a varie università finite nel cestino).
Il percorso di Amy, almeno all’apparenza, è in ascesa, mentre Danny (“voglio sapere se devo arrivare dove sei tu”) imita in maniera inconsapevole e maldestra la sua rivale. Nel settimo episodio, con i soldi della vendita di Kōyōhaus, Amy e George acquistano una residenza estiva. Quasi in parallelo, la casa edificata da Danny per i genitori va in fiamme a causa di cavi elettrici montati male. Tutto è illusorio. I protagonisti gravitano attorno a un identico buco nero. Il matrimonio di Amy crolla, il rapporto tra i fratelli Cho si logora. Il tempo, irreparabilmente, accelera.
Ogni episodio di Beef si apre con un’illustrazione, frutto del lavoro artistico di David Choe, l’attore che interpreta Isaac. La prima title card mostra pezzi di carne macellata e una testa di mucca, mentre sullo sfondo uomini e donne appartenenti a differenti classi sociali camminano e lavorano, la seconda è un quadro astratto che rappresenta una donna sola, con lo sguardo rivolto a terra, la terza raffigura un reciproco accoltellamento alle spalle… A rendere più incisivo l’incipit, concorre la scelta dei titoli stessi, estrapolati da citazioni di poeti, scrittori, filosofi e cineasti. The birds don’t song, they screech in pain viene da Burden of Dreams di Werner Herzog, I’m a cage è preso da un aforisma di Franz Kafka, Figures of Light cita Carl Jung… Gli accostamenti non sono forzati, pur richiedendo uno sforzo interpretativo per dipanare il substrato simbolico.
Un ulteriore elemento narrativo, non di mero decoro, è fornito dalle canzoni inserite nei momenti chiave e a chiusura degli episodi. Tiffany Anders, music supervisor della serie, ha attinto a piene mani dalla scena indie degli anni Novanta (Tad, Bush, Collective Soul, Incubus, Grant Lee Buffalo), confidando che “la rabbia angosciosa di quell’era musicale” si adattasse alla storia. Così è stato.
“Nasci, fai scelte, poi all’improvviso ti trovi qui”, in mezzo ai rovi, dove le vite si fondono/confondono in una magistrale sequenza che meriterebbe, da sola, la visione di Beef. Le fantastiche interpretazioni di Steven Yeun (inserito dal Time tra le cento personalità al mondo più influenti del 2021) e Ali Wong (stand up comedian molto nota) hanno certamente contribuito nel renderla, a furor di critica, una delle serie dell’anno. Maria Bello e Young Mazino, rispettivamente Jordan e Paul, sono altresì perfetti nei loro ruoli. Nel decifrare il mistero della vita, proprio Paul azzarda l’analogia con i videogame: “quando muoiono gli altri il gioco continua, quando muori tu è gameover”. Beef non finisce qui. Il gioco continua con altre due stagioni.
Titolo originale: Beef
Numero di episodi: 10
Durata: circa 40 minuti l’uno
Distribuzione: Netflix
Uscita in Italia: 6 aprile 2023
Genere: Dark Comedy, Psychological Drama, Tragicomedy
Consigliato a chi: ha una montatura di occhiali ottagonale, pensa che il vuoto possa essere solido, ha cantato Amazing Grace in chiesa.
Sconsigliato a chi: mescola Skittles e Coca Cola, odia i graffi sul parquet, sente di essere in “connessione emotiva” con qualcuno.
Visioni e letture parallele:
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Un libro fondamentale, dedicato ai “ritardatari della modernità”: Pankaj Mishra, L’età della rabbia. Una storia del presente, Mondadori, 2018;
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Tra i film della nidiata A24 citati nell’articolo, Midsommar di Ari Aster è disponibile su Prime Video, mentre First Cow di Kelly Reichardt è su Mubi.
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Negli Anni ‘40 del secolo scorso esisteva in California una terra vergine, dove gli architetti avrebbero sperimentato il design del futuro: Invito al viaggio: Palm Springs, oasi di edonismo. Disponibile su Arte.
Un oggetto: la pentola elettrica musicale.
Una maschera: Dick Cheney!

