Marco Giusti e la crisi di incassi del cinema italiano

Vi avevamo già segnalato che i contributi settimanali di Marco Giusti per Dagospia erano tra le cose più significative ed intelligenti da leggere online.

Anche se non abbiamo mai condiviso la passione stracult di Giusti, le sue analisi e le sue recensioni ironiche e scanzonate, colgono spesso nel segno.

Anche questa volta, intervenendo su una querelle inaugurata da ben due articoli del critico d’arte Francesco Bonami su La Stampa, Giusti riesce a riportare la polemica sui mancati incassi dei nostri film nelle sue giuste prospettive.

Bonami, che si occupa di arte e non si capisce perchè sia diventato d’un tratto un esperto di distribuzione e politiche cinematografiche, ha avanzato giudizi ed analisi sommarie su Bella Addormentata, su Buongiorno notte e sugli altri film di Bellocchio, del tutto prive di consistenza e con un malcelato disprezzo per il cinema di uno dei nostri più grandi autori.

Tra l’altro Bonami parte dal vetusto concetto che Bellocchio sia il regista di un solo film, il suo primo, I pugni in tasca, dimenticando invece che i risultati più efficaci, il regista di Bobbio li ha raggiunti proprio negli ultimi 15 anni, da La Balia in avanti, con una serie di capolavori, premiati più volte con David, Nastri, Ciak, Leoni d’Oro alla carriera e presenze ai Festival più importanti del mondo. Vincere, ad esempio, dopo il debutto a Cannes, è stato inserito dal New York Times tra i dieci migliori dell’anno. Segno evidente che il suo modo di fare cinema è tutt’altro che provinciale e limitato.

Giusti replica così: “No. Non ha ragione Francesco Bonami sul caso Bellocchio e i magri incassi del cinema italiano. A parte che non si capisce perché un critico d’arte scriva di cinema (ma in Italia tutti si sentono critici di cinema, come se fosse un’arte minore…), non ha ragione Bonami perché non è Bellocchio che deve fare i film che incassano. E la crisi del nostro cinema non è, purtroppo, solo la crisi del nostro cinema d’autore. Perché non è il cinema d’autore o da festival, da sempre, quello che deve riportare i soldi a casa.

[…] i film che devono riempire le sale sono appunto le commedie, i film comici. O, ovviamente, i film che hanno un costo elevato. Al di là del loro tasso di autorialità.

[…] Insomma, da una parte c’è una crisi generale del nostro cinema, legata alla stessa crisi del paese e della nostra borghesia. Da un’altra c’è una crisi più specifica, come quella legata al nostro cinema di cassetta.

[…] Certo, se un film come “Reality”, che costerà tra i cinque e i sei milioni non va benissimo, è ovvio che ci si debba chiedere perché, visto che “Gomorra” era andato così bene. Ma lì c’era un romanzo di successo, il nome di Saviano, un titolo forte, una storia e un’ambientazione forte. “Reality” ha un titolo debole e un tema che non interessa più come tre o quattro anni fa. Ma ancora di più ci si deve chiedere perché sono andati così male certe commedie targate Medusa, che pure avranno avuto un costo.

[…] E perché si sia mandato al massacro un buon film come “Padroni di casa” di Edoardo Gabbriellini, con un cast forte come Germano-Mastandrea-Morandi, lanciato senza manifesti per la strada, con una comunicazione incomprensibile. Tutti film che hanno navigato, nella loro prima settimana di programmazione, sui cento-duecentomila euro. Troppo poco. Allora, non c’è solo un problema Bellocchio, c’è un problema di prodotto (abbiamo davvero dei buoni film sul mercato?), c’è un problema di comunicazione (il film di Virzì ha comunicato, gli altri molto meno) e c’è un problema di industria.

[…]  Il fatto incredibile è che oggi stiamo a parlare dei 508.000 € di incasso di Virzì o del di non molto maggior incasso di Garrone o di Bellocchio senza pensare che abbiamo avuto, e potremmo riavere, un cinema di serie A o un cinema di serie B o Z da esportare in tutto il mondo se solo riuscissimo a comunicare col pubblico, tutto, a cominciare dal nostro.

E a riattivare una produzione di idee e talenti che da qualche parte, sparsi per il mondo, abbiamo ancora. No. Il problema non è Bellocchio. E non sarà neanche Bertolucci. Loro hanno fatto il loro (grande) cinema ed è bene che facciano cosa vogliono. Il problema siamo noi.”

Il problema è distributivo, certamente. Spesso i film italiani non hanno la forza commerciale di imporre un immaginario, di farsi strada tra le proposte del weekend, di accedere ad un numero di sale adeguato alle proprie ambizioni.

Ma c’è anche un provincialismo, questo sì, di certi opinionisti: nell’ultimo anno abbiamo vinto il Gran Premio della Giuria a Venezia 2011 con Terraferma e quello per la migliore opera prima per La-bas Educazione criminale di Lombardi, il FIPRESCI a Toronto con Il primo uomo di Amelio, quindi l’Orso d’oro a Berlino con i Taviani e il premio del pubblico della sezione Panorama per Diaz di Vicari, il secondo premio a Cannes con Reality di Garrone, con Nanni Moretti che è stato Presidente della giuria.

Quindi nella tanto bistrattata Venezia 2012, E’ stato il figlio si è portato a casa un’Osella per la fotografia, assieme al premio Mastroianni per il miglior giovane attore.

Non c’è cinematografia al mondo che possa vantare una serie di riconoscimenti così numerosi, negli ultimi 12 mesi. Se poi qualche giurato a Venezia non ha gradito il film di Bellocchio, ce ne faremo una ragione.

Anche i media francesi si sono lamentati, a gran voce, dei mancati riconoscimenti a film francesi dopo l’ultimo Festival di Cannes, ma la loro produzione è fortissima, come dimostra il fatto che la Palma d’Oro, Amour, batte bandiera austriaca solo per volontà di Michael Haneke: co-prodotto dalle francesi France 3 e Les films du Losange, è interpretato da tre attori francesi, girato a Parigi e parlato interamente nella lingua di Molière.

Così come sono co-prodotti dai francesi quasi tutti gli altri premiati: da Le Pacte, il nostro Reality, da Why Not e Wild Bunch, Beyond the hills di Mungiu, da Why Not anche The angels’ share di Loach.

L’industria francese vince anche quando i film di casa non portano a casa premi. E questo è quello che conta davvero, per un movimento mai così forte, nel quale tutti però hanno investito negli ultimi 15 anni: lo Stato con fondi 10 volte maggiori dei nostri, i produttori privati, le televisioni, la distribuzione.

Il cinema d’autore italiano non è in crisi di idee, tutt’altro. E’ in crisi di risorse, se mai, e lo sarà ancora di più in futuro. Occorre far in modo che possa incontrare il suo pubblico d’elezione e che non sia per forza vincolato a budget ridicoli, che finiscono col limitarne persino l’ambizione. Perchè non è accettabile che Garrone, uno dei nostri talenti più cristallini, incassi con Reality 1/5 di Gomorra.

C’è un problema distributivo evidente, in una stagione che si è ridotta drammaticamente a poco più di 9 mesi, racchiusi simbolicamente tra Venezia e Cannes.

Allo stesso modo andrebbe sostenuto e rilanciato il nostro cinema di genere, che non può fondarsi esclusivamente su 4 comici di Zelig, ma dovrebbe essere impegnato a produrre thriller, polizieschi, horror, e certo anche commedie, senza però prendere in giro il pubblico con idee striminzite, sceneggiature improvvisate ed interpreti oratoriali.

E invece anche il miglior interprete di quel cinema di genere, Michele Placido, va a girare in Francia con Daniel Auteil.

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