Mereghetti su Woody

Paolo Mereghetti dedica la sua recensione settimanale sul Corriere allo splendido documentario su Woody Allen, che uscirà nelle sale venerdì.

Si tratta di un documentario che ricostruisce la carriera di Allen a partire dai suoi precocissimi esordi e che si nutre delle sue testimonianze e di quelle di molti suoi attori e collaboratori, unendo materiale di repertorio, rari dietro le quinte e immagini dai suoi film.

Non è un documentario agiografico, anche se è evidente l’ammirazione dei realizzatori per il cinema di Allen, perchè l’atteggiamento del regista newyorkese è sempre modesto, autoironico, leggero.

La proverbiale insoddisfazione per i suoi lavori e la semplicità con cui parla dei film più amati e famosi, fungono da costante controcanto, rispetto alle parole di stima e di ammirazione dei tanti collaboratori.

Il film restituisce magnificamente il mistero della creatività inesausta di Allen, del suo stile inimitabile, delle sue manie, come quella di scrivere da sempre su una vecchia macchina da scrivere tedesca, di prendere appunti in continuazione, di tagliare ed incollare – non in senso metaforico, ma reale – le sue sceneggiature.

Particolarmente interessante per il pubblico italiano è la parte iniziale, dedicata agli esordi televisivi ed alle ospitate, che contribuirono a creare il personaggio Woody Allen.

Un piccolo gioiello per tutti gli appassionati ed anche per i più scettici.

[…] il dialogo inizia subito, con Woody Allen che apre alla macchina da presa le porte della sua camera, del suo studio, dei cassetti dove accumula fogli e appunti raccolti in ogni dove e che possono venirgli utili un giorno o l’altro. E che infatti, come spiegherà in una scena successiva, consulta ogni volta che deve iniziare un nuovo film, a caccia di qualche buona idea.

Questa linea di confronto diretto, che il regista (settantasette anni il prossimo primo dicembre) accetta con inusitata franchezza e sincerità, si intreccia a una messe di materiali sorprendenti, recuperati da trasmissioni televisive che il tempo aveva cancellato o quasi, e a un’altrettanto sorprendente galleria di ricordi e testimonianze che mettono a confronto attori e sceneggiatori, produttori e direttori della fotografia, familiari e amici. A tenere insieme questi materiali, c’è la ricostruzione cronologica della carriera di Woody Allen, dai tempi in cui, ancora studente liceale, scriveva battute per i comici di Broadway, ai suoi primi esordi in scena, alle comparsate televisive fino all’esplodere della sua carriera cinematografica.

[…] Colpisce, in un film che avrebbe potuto essere anche una specie di elogio apologetico, la sincerità con cui Allen ammette di aver fatto anche opere non riuscite. Non è facile strappargli un apprezzamento positivo su se stesso, una dichiarazione di compiaciuta vanità. Persino sulla fine del suo legame con Mia Farrow, finito su tutti i tabloid scandalistici del mondo, accetta le opinioni di chi la pensa diversamente (e il film illustra quel tema usando intelligentemente alcuni scene di Mariti e mogli, con Allen e la Farrow in una scena di crisi sentimentale, molto probabilmente girata dopo la loro rottura reale).

A sottolineare invece la sua genialità ci pensano i tantissimi attori che hanno lavorato con lui (commovente la testimonianza di Mariel Hemingway che ricorda l’ultima scena di Manhattan, illuminanti quelle di Josh Brolin e Naomi Watts sulle insicurezze degli attori)

[…] Ad ogni complimento Allen si schermisce, si nasconde dietro la propria timidezza e le proprie manie (quale altro regista interrompe le riprese per andare a casa a vedersi una partita in tivù?) ma soprattutto sfodera una sincerità che probabilmente è il segreto più vero dei suoi tanti capolavori: la capacità di raccontare la vita così come lui stesso l’ha vissuta o vorrebbe averlo fatto, nella maniera più semplice e diretta possibile, senza tradire quella fiducia nelle persone che nonostante sarcasmi, battute e fobie varie non gli è mai venuta meno.

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