Selma

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E’ la sera del 14 ottobre 1964. Martin Luther King riceve a Stoccolma il Premio Nobel per la Pace.

In camerino prova il suo discorso in compagnia della moglie Coretta.

Pochi giorni dopo in Alabama l’ennesimo attentato ad una Chiesa, uccide alcune bambine di colore, indifese.

Il reverendo King è alla Casa Bianca dal Presidente Johnson: dopo le leggi sui diritti civili del 1964 il prossimo passo è garantire a tutti il diritto di voto, ufficialmente consentito, ma in realtà ancora oggetto di segregazione negli Stati del Sud.

Il Presidente è riluttante, forse non c’è ancora una maggioranza nell’opinione pubblica e nel Parlamento, capace di supportare un’iniziativa in tal senso.

Martin Luther King decide quindi di spostarsi a Selma in Alabama, dove il Reverendo James Bevel sta organizzando, assieme alla Southern Christian Leadership Conference (SCLC) ed agli studenti della Student Nonviolent Coordinating Committee (SNCC), una protesta non violenta per spingere le autorità locali e statali ad accettare la registrazione dei cittadini di colore nelle liste per il voto.

Lo sceriffo Jim Clark è intenzionato ad impedirlo, alle sue spalle il governatore populista George Wallace non sente ragione.

King viene arrestato e quando esce di prigione deciderà che la forma migliore per far sentire la propia voce è quella di organizzare una marcia di cinque giorni da Selma fino a Montgomery, la capitale dello Stato.

Un primo tentativo, il 7 marzo 1965 finirà nel sangue. Sull’Edmund Pettus Bridge sul fiume Alabama, la polizia carica i manifestanti con lacrimogeni e manganelli. King è assente, ma la diretta televisiva immortala i manifestanti martoriati dalle forze dell’ordine.

King non demorde ed il 9 marzo una folla ancora più grande, non solo di neri, ma anche di molti bianchi si ripresenta sull’Edmund Pettus Bridge…

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Selma è il terzo film diretto dalla regista californiana Ava DuVernay, dopo I will follow (2011) e Middle of Nowhere (2012).

Nessuno dei due precedenti è stato distribuito in Italia, nonostante il sostegno di Roger Ebert ed il premio per la migliore regia vinto al Sundance dalla sua opera seconda.

Dopo aver sostituito Lee Daniels in cabina di regia, la DuVernay ha completamente riscritto il film, a partire da una necessità impellente. Gli eredi di MLK hanno impedito alla produzione di usare i veri discorsi ed i sermoni del reverendo, obbligando quindi la regista ad uno studio “matto e disperatissimo” per restituire il senso della retorica del leader dei diritti civili senza poter utilizzare davvero le sue parole.

E se il film è costruito in modo perfetto da un punto di vista drammatico, con le settimane in Alabama incorniciate dai due discorsi di King a Stoccolma e Montgomery, non si può dire altrettanto sulle scelte registiche della DuVernay forse intimorita dal soggetto e spinta dal desiderio di parlare ad un pubblico vasto.

Se la produzione infatti è indipendente, con i francesi di Pathé e la Plan B di Brad Pitt in testa, il film è distribuito da una major, la Paramount.

La marcia di King è appassionante, la sua battaglia per garantire il diritto di voto è sacrosanta, ma il film prende qualche scorciatoia drammatica da vecchia Hollywood, dipingendo il presidente Johnson come una sorta di avversario di Martin Luther King, alleato persino di Hoover nello screditarlo, quando gli storici ed i protagonisti di quella marcia l’hanno sempre considerato un alleato del reverendo.

Anche la figura del Governatore Wallace, popolarissimo e controverso in uguale misura, è tratteggiata con i toni netti del villain.

E’ vero che King era un rivoluzionario moderato e non violento e che rispetto a Malcolm X, la sua era una battaglia di integrazione e non di rivolta al sistema, ma certo la DuVernay avrebbe potuto avere più coraggio nella messa in scena.

Invece ha scelto sovente i colori forti e netti di uno Spielberg, alla complessità e maturità che oggi ci si aspetta, soprattutto da chi è lontano dal mainstream.

In ogni caso, resta la straordinaria fotografia di Bradford Young (Ain’t them bodies saints, A most violent year), capace di rendere il calore del sud, con la consueta maestria.

E soprattutto l’interpretazione di David Oyelowo, che cerca la complessità e le sfumature pure in una sceneggiatura che troppo spesso ne fa a meno, restituendo tutti i dubbi, le insicurezze,  persino i fallimenti personali del reverendo King, umanissimo nel privato e capace di trascinare i suoi sostenitori con una retorica prodigiosa e inesorabile.

Non a caso il film si chiude proprio con il discorso passato alla storia come “How Long? Not long” sulle scale del Campidoglio di Montgomery.

Che poi la regista sia stata costretta a riscrivere quelle parole così nette, per problemi di copyright, è una vergogna che non smette di indignare: il patrimonio, la legacy di Martin Luther King risiede essenzialmente nella forza delle sue parole.

E queste non appartengono ai suoi eredi, ma alla Storia.

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