Quando Henrik Ibsen scrive Hedda Gabler nel 1890, il suo nome è già celeberrimo nel panorama del teatro europeo e internazionale. Il drammaturgo norvegese, ripudiato il suo Paese, si è traferito a Roma da diversi anni, viaggia intensamente in mezza Europa, tra Parigi e la Costiera, dove nascono molti dei suoi lavori migliori, influenzatai dalla luce chiara del sud.
Nel pieno di quella che sarebbe stata identificata come la fase sociale del suo teatro, pubblica Casa di bambola, Gli spettri, Un nemico del popolo, La donna del mare.
Il personaggio controverso e inafferrabile di Hedda Gabler sembra chiudere questa fase e prelude ad un ritorno a Kristiania (la moderna Oslo), dove termina i suoi ultimi lavori al crepuscolo dell’Ottocento.
La trasposizione cinematografica di Nia Da Costa per Amazon MGM sposta la scena a metà del Novecento.
Hedda esce dall’acqua di un laghetto dove sembra volersi annegare per rientrare nella grande magione appena acquistata assieme al marito George Tesman, contraendo un debito significativo con il giudice Brack: all’interno sono in corso i preparativi per una magnifica festa, che testimoni il loro ingresso in società e aiuti George nella sua carriera.
Tesman è un uomo grigio e debole, un professore che sogna una cattedra che gli consenta una certa stabilità economica, capace di soddisfare le ambizioni della moglie Hedda, fresca sposa, figlia di un generale.
Hedda dal canto suo subisce le avances di Brack, ma attende alla festa il ritorno di Eileen Lovborg, una collega di George, con cui ha avuto una lunga e clandestina frequentazione amorosa, che ha lasciato in entrambe troppi rimpianti.
Ora Eileen sta con la giovane Thea Clifton – dimessa compagna di classe di Hedda – che è riuscita a smussare i suoi eccessi autodistruttivi, consentendole di scrivere un nuovo manoscritto che sembra destinato ad essere il suo capolavoro.
La tensione sale quando Hedda comprende che proprio il lavoro di Eileen impedirà a George di ottenere la cattedra agognata…
Da Costa inserisce una serie di elementi nuovi nel controverso racconto borghese di una donna perennemente insoddisfatta, capace di trascinare fondo tutti quelli che le ruotano attorno, in una spirale distruttiva che produce solo nuove infelicità e morte.
L’adattamento appare tuttavia come un tentativo affannoso di attualizzare le ansie della protagonista alle sensibilità contemporanee.
Innanzitutto Hedda Gabler è una donna di colore, così come Brack che da assessore diventa giudice, introducendo un sottotesto razziale del tutto estraneo alla dimensione originale. Non solo, ma cambiando sesso al personaggio di Ejlert Lovborg, già amante e oggetto del desiderio di Hedda, introduce nel racconto un elemento omosessuale che contribuisce a intorbidirlo con nuovi pregiudizi e nuovi desideri nascosti.
Il film accumula rimorsi e rimpianti in un’escalation che finisce rapidamente per annoiare e che non riesce mai davvero a vivificare un racconto che nonostante lo spostamento temporale, rimane come coperto di uno spesso strato di polvere.
Tessa Thompson interpreta Hedda senza alcuna gravitas, piuttosto come una bimba capricciosa, inconsapevole persino dei propri desideri. Frivola persino di fronte al destino e alla morte, incapace di suscitare alcuna reale empatia.
Il personaggio è respingente fin dalle intenzioni di Ibsen, qui appare tuttavia puerile e irrilevante.
Nina Hoss è non meno fuori parte nel ruolo di Lovborg, mal servita da costumi sgraziati che le tolgono qualsiasi glamour. La sua storia d’amore con Hedda non suona mai autentica.
Gli altri attori restano anonimi, incapaci di costruire per i loro personaggi uno spessore tridimensionale.
Il dècor lussuoso e immerso in luci dorate della grande casa dei Tesman è alla lunga piuttosto risaputo e non consente mai al film di cambiare tono.
Hedda traballa continuamente: se Da Costa ha scelto di eliminare il cognome dal titolo del lavoro di Ibsen per lasciar intuire il travaglio identitario della protagonista, schiacciata fra l’eredità paterna del padre generale e il presente infelice con un marito modesto, in realtà il film sembra fermarsi a questa originaria intuizione.
La dimensione femminista e lesbica introdotta nel racconto rimane una superfetazione mai davvero significativa, in un lavoro in cui gli uomini appaiono talmente sbiaditi che si faticano a cogliere le difficoltà di genere nell’affermazione lavorativa delle protagoniste.
Lo stesso vale per il tema del razzismo, elemento di sfondo piuttosto posticcio e incoerente, all’interno di quella che appare evidentemente come un’élite in cui l’origine razziale conta assai meno del censo e della rendita. E non è forse proprio l’afro-britannico Brack il personaggio più vile e ambiguo della compagnia?
Se l’inizio appare promettente, la seconda parte si muove meccanica verso un epilogo che si chiude circolarmente con l’inizio, in modo sin troppo programmatico.
Deludente.

