Il secondo capitolo nella trilogia di B-movie lesbo, ideata da Ethan Coen con la moglie montatrice Tricia Cooke vede ancora Margareth Qualley protagonista, come già in Drive-Away Dolls.
Presentato a Cannes in anteprima come film di mezzanotte, Honey Don’t dovrebbe precedere il conclusivo Go Beavers.
A differenza del precedente, in questo secondo episodio si rintracciano più chiaramente le impronte del cinema dei fratelli di St.Louis Park, nella ferocia imprevedibile e improvvisa della violenza, nel ruolo giocato dal caso e dal destino nel muovere i personaggi, dalla stessa testardaggine cinica della protagonista, l’investigatrice privata Honey O’Donahue, che lavora in un piccolo assolato paese della California centrale, Bakersfield.
Nel prologo Chère, una misteriosa donna col caschetto, si ritrova sulla scena di un rovinoso incidente stradale: la vittima è Mia Novotny, affiliata alla setta del Four-Way Temple guidata dal Reverendo Drew Devlin.
Prima di ribaltarsi con l’auto, Mia aveva chiesto aiuto a Honey fissando un appuntamento a cui non si è mai presentata.
La chiesa è in realtà una copertura per un vasto traffico di droga gestito da misteriosi francesi e per le attività extracurricolari del reverendo Devlin con le sue fedeli e disponibili adepte.
Grazie all’aiuto della poliziotta MG Falcone, Honey si mette sulle tracce di Mia Novotny e cerca di ricostruire i pezzi del puzzle, mentre la nipote ribelle Corinne scompare nel nulla dopo essere stata pestata dal suo manesco fidanzato.
Fra sottotrame che si perdono nel deserto californiano, sesso disinibito, apparizioni paterne ed esecuzioni post-coitali, il film di Ethan Coen è decisamente più audace ed esplicito rispetto a Drive-Away Dolls e allo stesso tempo crudo e sardonico nella sua rappresentazione di un mondo corrotto e senza pietà, in cui la sopraffazione e la manipolazione dei sottoposti è l’unica regola utile nei rapporti sociali.
Peccato che il film sia immerso nei colori “smarmellati” della fotografia dell’australiana Ari Wegner, qui decisamente e volutamente sgradevole, rispetto ai lavori pregevolissimi con William Oldroyd, Jane Campion, Sebastian Lelio: un più rigoroso bianco e nero avrebbe giovato ad un film che vuole evidentemente adottare un registro basso, pulp e volgare.
Margareth Qualley continua ad avere, di film in film, una presenza sempre più decisiva. Il suo fisico imponente, eppure affilato, il suo volto ancora immaturo, improbabile nei panni di una P.I. rotta alle assurdità della vita, la sua sessualità libera e selvaggia sono elementi nuovi all’interno di un film che sembra venire da un altro tempo e da un altro cinema, più vicino all’exploitation degli anni ’70. Il ruolo di Honey, tra voyerismo e coolness, sembra scritto per attrici come Pam Grier o Tamara Dobson.
Il film è un divertissement senza grandi ambizioni, con un finale così improbabile da sfidare il buon senso, lasciando aperte molte tracce e molti personaggi che appaiono e scompaiono senza nessuna utilità drammatica.
Non si riesce a comprendere perché Ethan Coen e la Focus Features con lui abbiano scelto di insistere su queste tre sceneggiature evidentemente poco ispirate, farraginose, che in un certo qual modo degradano la complessità filosofica e l’intelligenza feroce e postmoderna del cinema dei Coen ai suoi materiali di risulta, alle sue fonti più discutibili.
Honey Don’t è certamente più rotondo di Drive-Away Dolls, più divertente, folle e sconclusionato. Ma davvero è questo quello che rimane del cinema dei due fratelli?
Honey Don’t è una parodia di un film dei fratelli Coen.
Dopo la separazione, i due hanno inseguito ossessioni minori, giochi a somma zero, come se, una volta rotto l’equilibrio tra i loro talenti, non rimanessero che i difetti di ciascuno.
Dal 18 settembre a cinema.


