A quindici anni dalla serie prodotta da Fox e diretta da Antonello Grimaldi, Netflix riporta sul piccolo schermo la storia del Mostro di Firenze, grazie a Stefano Sollima che dirige le quattro puntate della prima stagione e a Leonardo Fasoli che ha scritto con lui le sceneggiature, ispirandosi in modo maniacale per tutti i dialoghi agli atti processuali e alle risultanze istruttorie.
Sollima che fin da Romanzo Criminale aveva impresso una svolta impressionante nella stantia fiction italiana, imponendo un ritmo nuovo, una capacità di sintesi che nella velocità e nell’impronta stilistica trovava una sua misura inedita, rispetto alle anonime regie televisive a cui eravamo abituati, sembra aver scelto per Il Mostro una forma completamente diversa.
Il ritmo è compassato, ossessivo, solenne, la musica preesistente è quasi solo diegetica, l’osservazione di un piccolo mondo provinciale ancora arretrato, patriarcale e abusivo toglie ogni glamour al racconto, annegando i personaggi in uno squallore, che ti rimane addosso, da cui nessuno esce innocente.
La serie si concentra in queste quattro puntate sulla cosiddetta pista sarda, la prima che gli inquirenti della Procura di Firenze coordinati da Pier Luigi Vigna e Silvia Della Monica seguirono nel corso degli anni ’80, quando i delitti attribuiti al Mostro del 1974, 1981 e 1982 furono collegati a quello del 1968, grazie alla circostanza che i colpi erano stati esplosi dalla stessa arma, una Beretta calibro 22.
Per il delitto avvenuto il 21 agosto 1968 di Barbara Locci e dell’amante Antonio Lo Bianco era stato condannato reo confesso il marito Stefano Mele, un manovale sardo emigrato in Toscana nei primi anni ’60.
Mele tuttavia nel 1974 era ancora in carcere, quindi gli inquirenti, una volta collegati i delitti successivi a quello iniziale, si soffermarono sulle persone che il marito aveva accusato del delitto prima di confessare, i fratelli Salvatore e Francesco Vinci, anche loro di origine sarda, e sulla stessa famiglia Mele, umiliata dalle voci che circondavano Barbara Locci e i suoi numerosi amanti.
Le quattro puntate sono così intitolate ai quattro iniziali sospettati, ripercorrendo l’omicidio del 1968 da quattro diversi punti di vista e al contempo mettendo in scena gli ultimi quattro omicidi del Mostro, che finirono per vanificare la pista sarda, chiusa nel 1989.
La serie cerca di ricostruire un’atmosfera, un milieu, cerca di raccontare soprattutto il contesto all’interno del quale maturarono i delitti.
Un contesto fatto di brutalità arcaica, di famiglie patriarcali ripugnanti, che fanno rispettare l’onore ad ogni costo, che praticano l’incesto, rifiutano l’omosessualità, combinano i matrimoni e non esitano a suggerire lo stupro per appropriarsi di donne innamorate di altri.
Due sono in proposito le scene più emblematica della serie: la prima è quella in cui la prima vittima, Barbara Locci esce in paese con un vestito nuovo rosso sgargiante, attirando gli sguardi lubrichi degli uomini in piazza.
La seconda è quella che coinvolge il fratello di Stefano Mele, Giovanni, quando accompagna una ignara fidanzata nelle campagne fiorentine, di notte, tra filari di vigne e boschi che i fari della sua auto illuminano, rivelando guardoni che brulicano come formiche operose. Mele conosce perfettamente le modalità del mostro, porta la donna che è con lui sul luogo del delitto del 1974, ne rimette in scena le dinamiche suscitando il terrore nella sua accompagnatrice che infine fugge a piedi nella notte: è una scena che sembra presa da Zodiac di Fincher, tanto soffocante è la tensione che si viene a creare.
Il Mostro è una serie che racconta un Paese arretrato, attraversato da una violenza ancestrale, da una repressione sessuale che trova forme esplosive e deviate per manifestarsi nel buio della notte e nelle stanze chiuse delle belle famiglie italiane.
Tutti i personaggi parlano il linguaggio della sopraffazione, della minaccia, del ricatto: la violenza non è solo quella fisica turpe, agita dal Mostro, ma anche quella culturale e sociale che finisce per contagiare ogni relazione.
Altro elemento forte della serie è la natura effimera dei suoi testimoni, completamente inaffidabili, bugiardi, mentitori per convinzione, per opportunità, per calcolo, costringendoci a ritornare continuamente sugli stessi eventi per rivederli diversi a seconda dei nuovi racconti, finendo per rendere vano qualsiasi desiderio di verità.
La scelta di un cast di attori pressoché sconosciuti restituisce interpretazioni diseguali, la ricostruzione d’epoca è notevolissima e inedita nel suo squallore.
La fotografia del fidato Paolo Carnera annega nel nero della notte fiorentina i misteri e i colpevoli.
Dal 22 ottobre su Netflix.


Prendo nota, grazie.