In The Mood For Love – 25esimo anniversario

In The Mood For Love ****

“Non dobbiamo essere come loro”

Hong Kong 1962. Nella piccola comunità degli espatriati di Shanghai, il signor Chow e la signora Chen si trasferiscono lo stesso giorno in due appartamenti vicini, separati solo da una sottile parete, affittati dalla Sig.ra Suen e dalla signora Koo, formidabili giocatrici di mah-jong. Chow lavora come giornalista e redattore, Chen invece è segretaria in un’agenzia di viaggi. Sono entrambi sposati, ma la moglie di Chow lavora in albergo e fa i turni di notte, rendendo di fatto impossibile la loro convivenza, mentre il marito ddi Chen è spesso assente per lunghi viaggi d’affari all’estero. 

Il Signor Ho, il capo di Chen, ha una doppia vita, dividendo il suo tempo tra la moglie e l’amante. L’unico vero amico di Chow è Ping, un edonista che passa il suo tempo tra bevute, bordelli e scommesse sui cavalli.

Chow e Chen si incrociano sulle scale del loro appartamento o quando vanno a prendere da mangiare, poco lontano, nel tentativo di riempire le loro serate solitarie e silenziose. Qualcosa non va nelle loro relazioni sentimentali. La lontananza si trasforma in una distanza anche affettiva, in un’estraneità progressiva, che nulla può colmare. Il seme del dubbio comincia a farsi sempre più evidente, ma a sciogliere ogni impasse saranno due borse e due cravatte uniche, che i loro rispettivi consorti hanno condiviso stupidamente.  

Messi di fronte all’evidenza del tradimento reciproco, Chow e Chen cominciano a frequentarsi più assiduamente, nel tentativo di capire, se non di comprendere. Assieme scrivono uno di quei romanzi di fantascienza che tanto amano leggere. 

Una sera la Sig.ra Koo ritorna inaspettatamente a casa e per salvare le apparenze Chen rimane nascosta nella camera di Chow per quasi ventiquattrore, il tempo di una interminabile partita di mah-jong con la Sig.ra Suen.

Per evitare nuovi incontri imbarazzanti, Chow affitta una stanza in un albergo dove poter scrivere il nuovo romanzo in tutta tranquillità e dove poter incontrare Chen, senza destare sospetti e pettegolezzi.

I due giocano ad interpretare i rispettivi consorti, si avvicinano pericolosamente, fino a che una sera, sotto la pioggia, Chow confessa a Chen di volersene andare a Singapore: “Devo cambiare aria, So che non lascerai mai tuo marito. E allora me ne vado”. “Non credevo che ti saresti innamorato di me” le risponde Chen.

“Verresti via con me se ci fosse un biglietto in più?”.

A Ping, l’amico di sempre, Chow confessa che nel passato, quando si aveva un segreto, si andava in montagna, si trovava un albero adatto, si faceva un buco e lì si confessava tutto, prima di richiudere il buco, certi che il segreto sarebbe rimasto tale per sempre. 

Passano gli anni, Chen va a Singapore, telefona a Chow, ma poi non ha il coraggio di parlargli. Torna a Hong Kong dalla Sig.ra Suen che non c’è più. 

Anche Chow torna molti anni dopo sullo stesso pianerottolo, cercando la Sig.ra Koo, anche lei trasferitasi da tempo. Non trova il coraggio di bussare alla porta accanto. 

In un tempio cambogiano, Chow sussurra il suo segreto nella fessura di una colonna, mentre un monaco lo osserva dall’alto. Poi prende un po’ di terra e la copre. 

Quando Wong War-Wai comincia le riprese fluviali di In The Mood For Love, il suo settimo lungometraggio, l’idea originale è quella di girare nella mainland cinese un film in tre parti intitolato Summer in Beijing con Tony Leung e Maggie Cheung, non troppo distante dalle atmosfere di Hong Kong Express.

Il trattamento, ambientato nella Cina di metà Novecento, è inteso come un canovaccio da utilizzare per i finanziamenti, da stravolgere in sede di riprese. Le difficoltà produttive tuttavia lo spingono a concentrare i suoi sforzi su un solo episodio, allora intitolato A Story of Food, in cui la vita di una coppia veniva mostrata anche attraverso le novità tecnologiche della cultura gastronomica locale.

Se la storia sembra una sorta di adattamento del romanzo breve Intersection di Liu Yichang, con lo spostamento delle riprese a Hong Kong, Wong intende anche ritornare sui temi e sui motivi del suo straordinario secondo film, Days of Being Wild, che nel 1990 ha segnato le coordinate estetiche e narrative del suo cinema, grazie al grande successo di critica e all’uso controintuitivo dei più grandi divi del cinema della ex colonia inglese: Leslie Cheung, Andy Lau, Carina Lau, Jacky Cheung e appunto Maggie Cheung e Tony Leung.

Spostare il nuovo film nello stesso contesto storico e culturale del precedente, consente a Wong di ritornare anche al tempo della sua infanzia e ad un momento unico nella storia dell’isola.

Solo che Hong Kong, all’alba del nuovo secolo, è molto diversa dalla città della sua memoria e con il rifiuto di girare in studio, Wong si decide a filmare sull’isola solo gli interni del suo film, lasciando che i pochissimi esterni siano invece ripresi a Bangkok, a Singapore e al tempio di Angkor Wat in Cambogia.

Le riprese si prolungano per quindici mesi, costringendo il direttore della fotografia Christopher Doyle ad abbandonare il set, lasciando a Mark Ping Bin Lee il compito di terminare il lavoro.

Il film è immerso nelle luci acide di Doyle, che sceglie formidabili dominanti rosse, verdi e gialle per illustrare la storia d’amore impossibile tra Chow e Chen. La libertà formale e la camera-stylo mutuate dalla Nouvelle Vague e utilizzate nei film precedenti, lasciano qui il posto ad inquadrature fisse, a primi e primissimi piani, a dettagli e continue a riprese al rallentatore. Secondo molti studiosi, si devono invece a Lee il formidabile uso del recadrage e i continui riflessi negli specchi, che isolano i personaggi e ne mostrano i condizionamenti sociali e culturali.

William Chang si occupa come al solito non solo di scenografie e costumi, ma anche del complicatissimo montaggio, che si prolunga per mesi mentre Wong continua ancora a girare e si conclude di fatto quando il film viene mostrato in anteprima a Cannes nel maggio 2000, in una copia ancora provvisoria: è Gilles Jacob a insistere perché il titolo internazionale non sia il prescelto Secrets, ma qualcosa di maggiormente evocativo. Wong ascoltando un album dei Roxy music si imbatte così in una cover di I’m In The Mood For Love. Anche il titolo originale cinese Faa yeung nin wa (trad. L’età della fioritura) è ispirato a una canzone del 1946 del famoso cantante Zhou Xuan, che nel film viene dedicata proprio a Chen, nel corso di una trasmissione radiofonica. 

La memorabile colonna sonora del film è tuttavia costruita sulle vecchie canzoni di Nat King Cole (Aquellos Ojos Verdes, Te Quiero Dijiste, Quizás, Quizás, Quizás) e su un valzer di Shigeru Umebayashi scritto per il film Yumeji di Seijun Suzuki e usato qui ossessivamente da Wong per segnare tutti i momenti più romantici del suo lavoro.

Rivedere a distanza di un quarto di secolo il capolavoro di Wong è un’esperienza inebriante, assolutamente seminale. Il film era già un archetipo classico, perfettamente compiuto e evidentemente fuori scala già allora. Il tempo non ha mutato la sua chiarezza, la sua necessità, la sua bellezza.

Non solo e non tanto perché il film testimonia l’apogeo della grande stagione del cinema di Hong Kong, chiusa rapidamente dopo il ritorno dell’isola alla madrepatria – nella quale Wong è stato peraltro una voce del tutto personale – ma soprattutto perché, in senso più radicale, In The Mood For Love rappresenta in pieno quell’anima postmoderna che attorno al centenario dell’invenzione dei Lumiére gioca a decostruire e ricostruire i generi, le forme, le storie e la Storia, con un’idea di cinema finalmente adulta, consapevole, rispettosa e complice dell’intelligenza del pubblico e dei suoi sentimenti. Un cinema che trova anche nelle sperimentazioni narrative del romanzo novecentesco l’ispirazione per spingere il racconto verso derive nuove.

E così anche il melò classico, quello di Breve incontro di Lean e delle magnifiche ossessioni di Sirk, rinasce nella vitalità caotica del cinema di Almodovar, nel minimalismo adolescenziale di Linklater e nell’eleganza appuntita di Wong, cercando un modo nuovo di comunicare le sue nostalgie struggenti.

Dietro le continue dissolvenze a nero di In The Mood For Love c’è un universo di possibilità che la storia lascia colmare a ciascuno di noi. Raccontando l’amore impossibile e platonico di Chen e Chow, vittime del tradimento dei rispettivi compagni, testimoni muti di una passione che altri hanno saputo vivere sino in fondo e che a loro tocca solo sfiorare, Wong costruisce un grande affresco tutto d’interni di un piccolo mondo perduto, una malinconia fatta di camere in affitto, di lunghi viaggi, di rotative e bordelli, di fumo che sale verso il soffitto e di orologi a muro che scandiscono il tempo del ricordo.

Gli stessi protagonisti vivono solo in relazione ai loro invisibili coniugi, con una sorta di identificazione negativa che pesa, soprattutto su Chen: “Non dobbiamo essere come loro“. Vero, ma allora cosa rimane “possibile”? Quasi nulla perché le convenzioni, la morale e il pettegolezzo restano la prigione del desiderio, dell’attrazione e del sentimento. Rimangono solo le stranezze, il gioco di reinterpretare i coniugi al ristorante o per la strada, gli appuntamenti nella stanza 2046 e il romanzo scritto a quattro mani. E allora Wong quei momenti li sublima in una serie di incontri casuali, di gesti minimi, di sguardi fugaci, che sembrano alludere ad un universo che Chen e Chow non esploreranno mai davvero. 

Ogni inquadratura è necessaria e superflua al tempo stesso, perché tutto quello che succederà è già scritto nel primo sguardo che Chow e Chen si scambiano sulle scale. In un film costruito su pochissimi elementi continuamente ripetuti, che Wong distilla sino ai definitivi 92 minuti finali, convivono l’idea di un testo assolutamente centrale rispetto al proprio tempo e una classicità che lo trasporta lontano da ogni moda e da ogni maniera.

Maggie Cheung, inarrivabile ed enigmatica, mai più grande di così, indossa quarantasei diversi tradizionali cheongsam, uno per ogni scena:  eppure quegli abiti mirabili e formali sono proprio il simbolo di una vita costretta in quelle convenzioni matrimoniali da cui non riesce mai a uscire.

Tony Leung, con la brillantina nei capelli e uno spleen che sembra evocare il fatalismo di Mastroianni, si accorge troppo tardi di desiderare l’impossibile e fugge lontano.

E così di fronte a due desideri che non possono incontrarsi, a Chow non resta che confidare il suo segreto ad un orecchio che non può ascoltarlo, mentre il tempo è ormai passato e il destino ha scelto anche per lui.

Il cinema ha parlato d’amore per tutta la sua storia, mai però con l’estenuante precisione usata da Wong, che per In The Mood For Love sembra scoprire una lingua nuova: nel suo formalismo irraggiungibile si ritrova l’essenza di un sentimento purissimo, perduto e rimpianto.

Quando ripensa a quegli anni lontani, è come se li guardasse attraverso un vetro impolverato: il passato è qualcosa che può vedere, ma non può toccare; e tutto ciò che vede è sfocato, indistinto“. Siamo infine a Bangkok in una città fantasma: il tempio è solo l’ultima delle sue rovine.

Il tempo si è ripreso così la sua eternità, complice muto degli affanni degli uomini.

Come ha scritto Emanuela Martini su Cineforum, venticinque anni fa, “ogni dettaglio di questo film tende a uno sguardo molto più profondo di quello che all’apparenza racconta, uno sguardo capace di abbracciare il passato nella sua completezza e nella sua unicità, di ricostruirlo nella sua perduta concretezza storica fingendo di render conto soltanto di una parentesi d’amore. […] Raccontando nient’altro che una storia d’amore, Wong Kar-wai ci svela quale può essere ancora oggi il segreto del cinema: preservare i segreti, per sempre, come un albero o un tempio secolari, e lasciarli condividere solo a quanti sanno apprezzarli”.

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