Warfare

Warfare *

La scintilla per questo Warfare, scritto e diretto da Alex Garland con Ray Mendoza nasce sul set del precedente Civil War, dove l’ex Navy Seal era consulente militare.

Ambientato in Iraq il 19 novembre 2006, Warfare ricostruisce un assedio effettivamente subito dal plotone di Mendoza, subito dopo la battaglia di Ramadi.

Dopo un curioso prologo costruito sul video anni ’80 di Color me di Pryzd che sfrutta il campionamento di un celebre verso di Valerie di Steve Winwood, con il plotone intero che osserva ossessivamente le immagini e poi sembra quasi esplodere di energia, il film è costruito soprattutto attorno al silenzio, al brusio costante delle comunicazioni radio, al lamento di dolore dei soldati colpiti, ai colpi e alle esplosioni che rompono quello che appare solo un’ordinaria giornata di pattuglia e occupazione nel corso di una guerra combattuta sul campo.

Nella notte il plotone Alpha One ha occupato una villetta a due piani, prima di scoprire che il piano più alto è murato e ci vive un’altra famiglia.

Pian piano si accorgono di essere circondati dai cecchini appostati sui tetti delle abitazioni circostanti.

Un primo tentativo di evacuarli finisce in tragedia quando un’esplosione ferisce alcuni soldati e ne uccide altri.

Erik l’ufficiale in comando si convince a chiamare Alpha Two per salvare i superstiti, mentre tutti si rifugiano di nuovo nella villetta occupata.

Il film è un racconto in presa diretta di un’operazione di ricognizione, occupazione ed esfiltrazione finita male.  Tratto dai ricordi e dai racconti di Mendoza e degli altri soldati del suo plotone, che appaiono alla fine in una galleria fotografica che mostra i veri protagonisti di questa storia, non tutti a volto scoperto, Warfare è un prodotto che dietro la scusa del realismo nasconde la solita insopportabile retorica militarista, il solito eroismo resiliente dei bravi ragazzi americani, riducendo il nemico a un fantasma invisibile e vigliacco in campo lungo.

Il suo militarismo è ributtante, fasullo, ipocrita e sufficientemente furbo da far dubitare qualcuno delle sue buone ragioni.

Garland ha a lungo flirtato con questi temi, almeno a partire a Annientamento e già Civil War soffriva di un certo qualunquismo, anticipando profeticamente le tensioni evidenti dopo il secondo insediamento del presidente Trump, ma costruendo tutto il suo film sull’ambiguità politica di una nuova guerra civile americana senza buoni né cattivi, neppure tra chi avrebbe il compito di testimoniarne la brutalità attraverso il fotogiornalismo.

Se tuttavia in Civil War il soldato interpretato da Jesse Plemons era il più folle e degenerato dei personaggi incontrati dal manipolo dei protagonisti, qui in Warfare invece i Navy Seals sono apparentemente solo testimoni innocenti della brutalità della guerra. Ritorna in modo stucchevole la logica paranoica dell’assedio: il mondo attorno a noi è un posto incomprensibile, che richiede persino la presenza di un traduttore per essere compreso, mentre noi ci rinchiudiamo nelle mura fintamente confortevoli di una casa che non è la nostra, circondati da un nemico invisibile e letale.

In questo tempo di conflitti recrudescenti, di violenze inenarrabili sui civili, di stermini di massa intollerabili e di guardie nazionali che affrontano pacifici manifestanti persino in quelle che una volta erano solide democrazie, un film come Warfare appare francamente irricevibile, persino pornografico nella sua scelta di raccontare l’ordinarietà di un altro giorno di conflitto, sempre dalla parte “giusta” della storia.

Peraltro la regia di Garland sembra quasi lavarsene le mani, mettendo in scena la storia di Mendoza senza mai creare una dimensione drammatica, affidandosi ad un preteso realismo che ci lascia completamente indifferenti alle sorti del plotone Alpha One.

Senza una bussola morale, tutta questa cura maniacale nella riproduzione fedele del dettaglio è solo un’illusione per allocchi, un’ennesimo videogame senza anima. Quante volte ci è stato detto che la scelta immersiva era giustificata dalla volontà di “non risparmiare nulla allo spettatore”, di convincerlo di essere “parte dello scontro”. Ne abbiamo viste abbastanza di immersioni, buone per lavarsi la coscienza mettendo in scena la solita violenza.

E anche da questo punto di vista, Warfare arriva buon ultimo dietro Scott, Bay, Greengrass. Siamo lontanissimi sia dalla radicalità di Redacted di Brian De Palma, segno infranto e capolavoro perduto su quel conflitto, ma persino dal nichilismo di The Hurt Locker e dalla muscolarità elettrica di Black Hawk Down e The Green Zone.

In realtà per tornare al fotogiornalismo di Civil War, qui siamo semplicemente spettatori embedded, manipolati, costretti a condividere una sola realtà, un solo racconto, che ci viene venduto come autentico, con l’illusione effimera del realismo.

Irricevibile.

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