Il nuovo film di Radu Jude, il secondo del 2025, dopo Kontinental presentato alla Berlinale, è una sorta di decamerone ispirato a Dracula e al suo mito.
Un regista, alter ego di Jude, confinato in quella che appare come una cella, ci chiede di seguirlo in un racconto che mostra un surreale cabaret erotico offerto ai turisti in Transilvania: un Dracula attempato e impotente e una Mina dal trucco dark – che sarebbe piaciuta a Ed Wood – si esibiscono ogni sera in un numero che si conclude immancabilmente con la fuga nelle strade medievali della città, inseguiti da una folla armata di pali appuntiti.
Il racconto però è continuamente interrotto da altre storie, originate o realizzate da una fantomatica Intelligenza Artificiale, in cui il mito di Dracula/Nosferatu viene dissacrato in ogni modo possibile, da una ballata su Tik Tok ad un improbabile remake, da inserti porno nel classico di Murnau ai trattamenti ringiovanenti di una clinica per ricchi e attempati clienti, anche piuttosto famosi, da l’adattamento della versione rumena del mito, sino ad un vampiro capitalista, che sfrutta i lavoratori in società di gaming online.
Diviso in capitoli numerati per ognuna delle diverse incarnazioni del personaggio, il film si chiude con un piccolo, meraviglioso frammento che forse non c’entra nulla con il resto, ma vale lo sforzo di aver atteso 170 minuti: un padre che raccoglie l’immondizia per le strade della Bucarest di oggi, che assiste alla recita della figlia da dietro il cancello della scuola, vergognandosi della divisa e del gilet giallo che ancora indossa, dopo una lunga giornata di lavoro.
In un film, girato ancora una volta in low-fi e con un telefono cellulare da Jude, con spirito punk e non poca confusione ideologica e narrativa, pieno di falli, di sesso e di ironie grevi che lo renderanno verosimilmente indistribuibile, quel frammento finale di tenerissima dolcezza e al contempo di profonda amarezza, è un gioiello che sembra emergere inatteso dopo un tour de force estenuante, che certamente ha divertito Jude, molto meno noi spettatori, costretti ad assecondare fantasie raffazzonate.
Il film si apre con una serie reincarnazioni del mito, ricreate dall’AI che affermano “Io sono Dracula e puoi succhiarmi il c***o”, ed è una dichiarazione d’intenti che Jude persegue con spirito iconoclasta, cercando di riappropriarsi di tutte le diverse versioni del personaggio, da quelle autoctone a quelle classiche del cinema e della letteratura, sino alle più degradanti reincarnazioni moderne.
Il film è certamente teso a rendere esplicita la metafora sessuale dell’icona del vampiro nato in Transilvania, smascherando al contempo il bieco commercio dell’immagine del Conte Vlad, ad uso di turisti assetati di fandonie e di emozioni da poco.
I segmenti realizzati con l’AI sono veramente atroci, eppure quando Jude vuole fare sul serio ci riesce sempre benissimo. Solo che questa volta sembra assecondare la sua verve più cialtrona, in modo da ridefinire interamente i confini della parola grottesco.
Se l’inizio può apparire ancora divertente, il gioco riproposto ad libitum, per quasi tre ore diventa insopportabile, annacquando l’idea in realtà molto interessante che l’AI stessa sia l’ultima decisiva incarnazione capitalistica del vampiro, impegnata a succhiare prima energia e poi tutto il resto, senza alcun limite e senza alcuna autorizzazione, assecondando ogni domanda sino a saturare qualsiasi desiderio.
E lo stesso in fondo fa Jude con il suo film, saturo sino all’inverosimile del più bieco e triviale intrattenimento e poi persino di sprazzi di cinema d’autore, in modo da accontentare ogni pubblico.
Il gioco è scoperto e l’obiettivo esplicito e anche condivisibile. Il film però è troppo sgangherato e faticoso perché il messaggio si faccia davvero cinema.
Irrisolto.

