Dopo l’exploit di Barbarian, Zach Cregger ritorna spalleggiato da New Line e Warner Bros con Weapons, una sorta di favola horror che sembra pagare più di un debito con i riferimenti imprescindibili di ogni elevated horror, a partire dall’universo di Stephen King.
L’ufficio stampa si è premurato di ammonirci perché non siano rivelate parti della trama che possano rovinare la sorpresa agli spettatori che scopriranno il film nelle sale, a partire da domani pomeriggio, e noi obbedienti manterremo il mistero che circonda il film. Ma se siete ipersuscettibili, ritornate dopo aver visto il film.
Le premesse sono note.
E la voce off di una bambina ce le racconta nell’incipit del film, che ci anticipa che la polizia non ha risolto il mistero che non ha avuto grande eco sulla stampa, perché tutti se ne vergognano ancora un po’.
In una piccola città delle Pennsylvania di nome Maybrook alle 2.17 di una notte come le altre, diciassette bambini di terza elementare fuggono dalle loro case e scompaiono nel nulla. Alcune telecamere di sicurezza li riprendono mentre corrono via con le braccia aperte.
L’unico ancora presente nella classe della maestra Justine Gandy è Alex Lilly. La polizia interroga lui, i genitori, la maestra, il preside, ma nessuno sembra avere idea di che fine abbiano fatto i bambini.
Ad una riunione scolastica, Archer Graff, il padre di Matthew, uno dei bambini scomparsi, accusa la maestra di nascondere qualcosa, provocando l’interruzione della riunione e la fuga precipitosa dei partecipanti.
La storia ci viene quindi raccontata attraverso il punto di vista dei principali protagonisti: Justine, Archer, il poliziotto fedifrago e tormentato Paul, il preside omosessuale della scuola Andrew, un tossicodipendente di nome Anthony, che risolverà casualmente il mistero, e naturalmente Alex.
Seguendo la prospettiva dei sei personaggi torneremo più volte sugli stessi eventi, visti da prospettive opposte, ogni volta trovando la chiave per comprendere quello che apparentemente ci sembrava inspiegabile.
C’è un settimo personaggio che compare solo nella seconda parte del film, precisamente nel segmento dedicato al dirigente scolastico Andrew. Si tratta della zia di Alex, Gladys, che si sta occupando del bambino a causa dei problemi di salute dei suoi genitori.
Attraverso una serie di scelte narrative che richiamano per molti versi quelle di Magnolia di Paul Thomas Anderson almeno quanto Scappa e Noi di Jordan Peele, Cregger sembra volerci dimostrare quanto sia bravo e audace nel mettere in piedi un piccolo grande meccanismo drammatico, che tra incubi, visioni, suggestioni e sparizioni, strizza l’occhio ad una serie di paure intime e collettive che attraversano il nostro tempo.
Il trauma collettivo chiama evidentemente il capro espiatorio perfetto. Che è sempre l’estraneo, l’ultimo arrivato di cui non conosciamo il passato.
Tuttavia anche la figura dell’insegnante ha le sue ombre: miss Gandy beve vodka e non solo, molesta poliziotti sposati e anche se ha l’intuizione giusta non ha la forza di farsi ascoltare.
Il presidente sembra nascondere la sua omessualità dietro una cortina di perbenismo e ipocrisia che applica anche nel suo lavoro.
Il maschio alfa Archer non si fida delle verità ufficiali, punta il dito e non solo quello: vandalizza l’auto della maestra, la insegue e la spia, convinto che ci sia un complotto contro di lui.
Quando al poliziotto Paul e all’eroinomane Anthony, i due rappresentano la coppia comica del film, che ha un coté da black comedy piuttosto forte, decisamente riuscito soprattutto negli episodi dedicati ai due personaggi.
Il finale, che ci viene raccontato attraverso il punto di vista di Alex, è invece quello che consente di sciogliere – in buona parte – i misteri del film, anche grazie ad una dose generosa d’azione e di brividi horror.
Il problema del film di Cregger è che le premesse suggeriscono un’ambiguità e una complessità che la conclusione stregonesca non riesce a soddisfare davvero, chiudendosi in una maledizione tutta personale e familiare incapace di creare una qualsiasi mitologia, che minimizza tutte le questioni aperte e lasciate irrisolte, riducendole a spunti che non portano da nessuna parte.
Forse è proprio questo il messaggio: viviamo in un presente caotico che ci risulta illeggibile, cerchiamo risposte razionali e consolazioni sentimentali che non avremo mai. Quello che ci accade forse è solo frutto di un destino che qualcun altro manovra, tirando i nostri fili come fossimo delle marionette. E’ questo quello che vuole dirci Cregger? La vita non ha senso ed è inspiegabilmente violenta e insondabile?
I microcarrelli, le panoramiche a schiaffo, gli zoom, l’uso sapiente della musica pop a partire da Beware of Darkness di George Harrison, le citazioni kubrickiane, sembrano tutte testimonianze di un talento che non ci pensa nemmeno a confinarsi in un genere basso come l’horror. Un genere a cui evidentemente non crede per nulla e che sfrutta per quanto gli può dare, senza curarsi troppo della tenuta del racconto, della tensione, del suo linguaggio specifico.
Weapons cambia tono in continuazione, ogni nuovo punto di vista è come se fosse una declinazione diversa del genere, creando un’altalena emotiva che alla lunga non sembra funzionare.
Davvero bastano un po’ di jump scare qua e là, qualche cranio brutalmente maciullato, incubi premonitori e la solita casa stregata, come spazio d’elezione dell’orrore contemporaneo o non rischiano di sembrare solo cedimenti necessari ad un racconto che vorrebbe dire altro?
Solo che questo ‘altro’ rimane quantomai vago e indecifrabile: ad un certo punto un fucile d’assalto enorme compare improvvisamente sopra la casa di Alex: siamo tutti cecchini o vittime, nelle mani altrui?
Come ha scritto Variety “quando iniziamo a capire perché tutto questo stia accadendo, le idee sfrenate che il concept di Cregger ha scatenato nelle nostre teste iniziano a restringersi a un’unica spiegazione, inevitabilmente limitante. Per tre quarti del film, l’approccio abilmente obliquo di Cregger lascia libera la nostra immaginazione. È solo quando emerge la risposta che Weapons inizia a perdere il suo fascino.”.
Cregger è un talento con qualcosa di urgente da dire o sta solo giocando postmodernamente e in maniera un po’ troppo scoperta con elementi di sicura presa emotiva?
Lo so, ci sono troppe domande in questa recensione.
Le risposte non ce le darà sicuramente Weapons. Ma al momento temo che il talento di Cregger sia annegato in un mare di presunzione.


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