28 anni dopo

28 anni dopo **

Nel 2002 in un laboratorio di Cambridge un gruppo di animalisti liberava scimmie infettate con il virus della rabbia, provocando una pandemia devastante in tutta l’Inghilterra. Tony Blair ordinava l’evacuazione di Londra e quando il giovane fattorino Jim si risvegliava dal coma, ventotto giorni dopo, si ritrovava immerso in uno scenario post-apocalittico: la città deserta, i pochi sopravvissuti costretti a nascondersi e orde imprevedibili di infetti feroci, pronti a nutrirsi di carne umana, perpetuando così la trasmissione.

Nel finale aperto e molto controverso Jim sopravviveva assieme a Selena e alla piccola Hannah, ricostruendo una sorta di impossibile nucleo familiare nella campagna inglese, mentre un aereo militare sopra di loro ne avvistava la presenza.

28 anni dopo tuttavia l’Inghilterra è ancora in quarantena, isolata dal continente in cui sono riusciti a fermare la pandemia.

Sulla piccola isola di Lindisfarne, collegata alla terra ferma solo da una strada praticabile in condizioni di bassa marea, vive una comunità autosufficiente, che ha imparato a sopravvivere seguendo un rigido protocollo, che sembra però averli precipitati in un nuovo medioevo.

Qui vive il giovane Spike con il padre Jamie, uno spazzino, e con la madre Isla, gravemente malata. Al compimento dei suoi dodici anni Spike viene condotto dal padre sulla terra ferma per una sorta di iniziazione alla vita: con arco e frecce è costretto a uccidere un infetto per la prima volta.

Quando tuttavia i due vengono avvistati da un Alpha – un infetto più forte, più veloce e più astuto, su cui il virus ha avuto l’effetto di una cura di steroidi – si rifugiano nella soffitta abbandonata. Da qui vendono il fuoco in lontananza che il padre attribuisce al misterioso e folle Dott. Ian Kelson.

Al rientro sull’isola, Spike decide di scappare con la madre, alla ricerca del dottore, nella speranza che possa curare la malattia di Isla. Sulla loro strada troveranno un soldato svedese, Erik, naufragato dopo l’affondamento accidentale della sua nave di pattuglia.

Quando Spike e Isla raggiungeranno finalmente il Dott. Kelson scopriranno il senso della frase latina “memento mori”.

Danny Boyle e Alex Garland ritornano alla loro “creatura” dopo un lungo iato, nel quale si è inserito anche il sequel 28 settimane dopo, di cui sono stati sostanzialmente spettatori e che non trova riferimenti in questo terzo capitolo.

L’idea condivisa con il produttore Andrew McDonald e con la Sony-Columbia, che ha acquistato i diritti dalla Searchlight, era quella di girare una nuova trilogia con il primo episodio affidato a Boyle, il secondo girato contestualmente da Nia Da Costa e un terzo conclusivo da affidare all’uno o all’altra, a seconda del successo di un’operazione che sembra quasi solo il frutto di un bieco calcolo commerciale.

Se 28 giorni dopo sfruttava le prime macchine da presa digitali, restituendo tutta la precarietà e il look sporco di un reportage di guerra da una zona in quarantena, questa volta Boyle ha deciso di girare tutto il film con un Iphone, con risultati che francamente tradiscono l’inadeguatezza del mezzo, senza aggiungere nulla al guerilla-style già sperimentato nel capostipite.

Si nota piuttosto la solita mano pesante del regista, che non sembra essere mai uscito dai suoi anni ’90.

Garland costruisce un copione in cui si sentono prepotenti gli echi della Brexit  e della pandemia, facendo tuttavia degli isolazionisti reazionari e oscurantisti i buoni di questa storia e mettendo il piccolo Spike in una posizione scomoda e ambigua: parte di quella stessa comunità, ma deciso ad abbandonarla per sete di conoscenza e fiducia in una scienza, che pure non ha mai conosciuto.

Boyle lo asseconda soprattutto nella prima parte, montando le immagini della comunità autarchica di Lindisfarne – già usata da Polanski in Cul-de-sac – alternate a scene dall’Enrico V di Olivier e alla voce di Taylor Holmes che recita ossessivamente Boots di Rudyard Kipling: fatica sprecata, perché la metafora era già chiarissima.

Lo stesso personaggio del soldato svedese Erik, che immette nella storia elementi di modernità con il suo telefono cellulare, va in quella direzione, che tuttavia Boyle smette di coltivare, preferendo concentrarsi nella seconda parte sul rapporto madre-figlio e sulla dimensione della malattia, della morte e della rinascita.

Il film finisce così per deragliare del tutto, tra spiritualismi new age e una galleria di personaggi improbabili che sfiorano il ridicolo involontario: l’Alpha gigantesco e neandertaliano, la donna che sta per partorire, il medico invasato che sembra il Kurtz di Coppola e il gruppo finale di combattenti acrobatici e queer, che si ricollegano al secco prologo iniziale, la parte più vicina allo spirito del film originale, poi decisamente tradita.

Si resta spiazzati dalla confusione creata da Boyle, che tradisce lo spirito politico di Garland e perde anche il suo film, in un delirio che lo stile visivo scelto contribuisce ad accentuare.

Il formato ultra-wide dello schermo viene infatti sfruttato per immergere i personaggi in un contesto naturale in gran parte incontaminato, facendo della doppia avventura di Spike un viaggio epico, ma poi quello stesso spirito viene continuamente sporcato e corrotto da scelte low-fi che brutalizzano l’immagine.

La parte action è molto ridotta e volutamente sgradevole, ma almeno recupera il linguaggio da B-movie del primo episodio, che aveva rinverdito il genere zombie a partire dall’intuizione di Umberto Lenzi, ovvero che gli “infected people” sono diversi dai “non morti” della tradizione voodoo e si muovono veloci e voraci come bestie assetate di sangue.

Aaron Taylor-Johnson esce di scena presto, ma nel suo caso presto non è mai davvero abbastanza. Jodie Comer ha un’unica espressione sofferente e stordita per tutto il film e Fiennes è costretto ad un’impression di Brando a petto nudo che ci saremmo volentieri risparmiata. Jack O’Connell appare per meno di tre minuti, ma il suo sembra già essere il personaggio più cringe della saga.

Se questo è il primo film di una nuova trilogia, bisogna considerare anche il microcosmo narrativo che Boyle vuole creare. Ed è qui che forse il film trova qualche motivo di interesse, mostrando che la Gran Bretagna di 28 anni dopo è uno spazio in cui infetti e non infetti sono entrambi sopravvissuti che condividono gli stessi spazi e cercano di costruire piccole comunità autosufficienti, secondo un ordine pre-moderno.

Il finale aperto, che prelude direttamente al suo seguito, segue la logica più povera della serialità, riconducendo questo 28 anni dopo a quello che è: il pilota di una nuova stagione.

Troppo poco.

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