Cannes 2025. Eleanor The Great

Eleanor The Great **

L’esordio dietro la macchina da presa di Scarlett Johansson, è un curioso film sull’Olocausto, sul peso della verità e sull’ultimo tempo della vita. Ma è soprattutto un film con e su June Squibb, la formidabile novantaquattrenne che ha cominciato nei musical a Broadway nel 1959, ha incontrato il cinema solo nel 1990 con Alice di Woody Allen e in questo lungo finale di partita ha avuto l’attenzione e il successo che probabilmente meritava, lavorando con Scorsese, Oz, Haynes, Brest, a lungo con Alexander Payne, che l’ha voluta anche in Nebraska, regalandole la sua unica nomination agli Oscar.

Infinite le serie tv a cui ha preso parte, quasi tutte nel nuovo secolo. Ha prestato la sua voce anche all’animazione con Toy Story 4, Soul, Inside Out 2.

Eleanor The Great è proprio lei, una novantenne dalla battuta pronta, che vive in Florida con l’amica di tutta la vita, Besse, un’ebrea polacca scampata all’Olocausto. Quando quest’ultima viene a mancare improvvisamente, Eleanor ritorna a New York, dalla figlia e dal nipote, per cui è quasi un peso di cui disfarsi velocemente.

Costretta a ricostruirsi una nuova routine, frequenta il Jewish Comunity Center e per errore finisce in un gruppo di sopravvissuti ai campi di concentramento. Quando le chiedono di condividere la sua storia, Eleanor finisce per raccontare quella di Besse, la sua amica di sempre.

Solo che Nina, una giovane studentessa della NYU, figlia di un noto anchorman televisivo, che segue il gruppo per una tesina universitaria, prende a cuore la storia di Eleanor, le chiede di raccontarla ancora e la invita nella sua classe, perpetuando un equivoco da cui la protagonista non sa più come uscire.

Il film di Scarlett Johansson è una commedia costruita interamente sulla verve impareggiabile di June Squibb, adorabile anche quando la verità viene a galla e l’onta di aver impersonato una vittima dell’orrore nazista travolge le relazioni e la fiducia che aveva costruito con Nina, con il rabbino della sua sinagoga e con gli altri partecipanti al gruppo del JCC.

Le viene in soccorso la Bibbia, con la storia di Giobbe ed Esau che le racconta il rabbino e l’aiuta la comprensione che a poco poco si fa strada in Nina e in suo padre, che vedono l’innocenza delle bugie raccontate da Eleanor, capaci di colmare la solitudine tanto della perdita dell’amica più cara, quando lo spaesamento di ritrovarsi a novant’anni in una realtà completamente nuova, senza amici e senza affetti da poter condividere.

Il film è divertente, vivace, molto prevedibile nel suo sviluppo narrativo, ma ugualmente riuscito e commovente nell’ultima parte, quando la dimensione affettiva e sentimentale fa gioco sulla deontologia professionale e sull’ossessione per la verità.

Ruffiano per la sua parte e un pochino ricattatorio nel modo in cui costruisce il suo climax, il film scritto da Tory Kamen è il più classico degli esordi d’attore: tutto dalla parte degli interpreti e dell’interpretazione, con uno stile piano, invisibile, che punta al coinvolgimento emotivo su quello razionale, chiedendoci ancora una volta di piangere lacrime di compassione per le vittime dell’Olocausto.

Certo, se dovessimo giudicare razionalmente un film tutto ambientato nella comunità ebraica contemporanea in cui non c’è mai un solo accenno alle questioni brucianti e moralmente contraddittorie, che si accompagnano al conflitto in corso a Gaza e in Palestina da oltre un anno e mezzo, dovremmo concludere che si tratti di un lavoro così estraneo al proprio tempo e alla Storia da lasciare sconcertati.

Come spesso accade nelle commedie, la realtà rimane in un mondo a parte, qui prevale ancora una volta la fabula. E al netto della formidabile June Squibb, il risultato è complessivamente striminzito, davvero minimo.

Pur avendo lavorato a lungo con formidabili registi come i fratelli Coen, Allen, Anderson, Nolan, De Palma, Glazer, è evidente che Johansson non ha preso ispirazione da nessuno di loro.

Carino, nel senso peggiore del termine.

 

 

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