Cannes 2025. Amrum

Amrum **

Amrum è un’isola delle Frisone settentrionali nel Mare del Nord.

Qui si sono rifugiati il piccolo Nanning e la sua famiglia, negli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale. Il padre è un gerarca del regime, così come lo zio Onno, che pretende che il nipote si presenti con la divisa della gioventù hitleriana.

Lo zio Theo invece è fuggito negli Stati Uniti, dopo che il suo desiderio di sposare un ragazza ebrea, è stato ovviamente frustrato.

Hille, la madre di Nanning, è incinta all’ultimo mese è ancora devotamente nazista: ha alle pareti un ritratto del fuhrer e si premura di denunciare al podestà locale chi parli in modo disfattista del regime e dello sforzo bellico ancora in corso.

Dopo il parto, che avviene alla notizia della morte di Hitler, Hille smette di mangiare chiedendo l’impossibile: pane bianco, burro e miele.

Per tutto il film Nanning cercherà il modo di esaudire il suo desiderio.

Il film scritto dall’attore Hark Bohm – forse a partire dai suoi ricordi personali – e affidato a Fatih Akin, suo allievo alla scuola di cinema, è un curioso ritratto familiare negli ultimi giorni del regime, tra paura, libertà e senso di fine.

Amrum resta un lavoro diseguale, velleitario, pieno di spunti irrisolti e di personaggi squilibrati. Il punto di vista scelto è quello del piccolo Nanning, delatore suo malgrado, nazista per opportunità e per eredità familiare più che per convinzione, spettatore del crollo di un mondo e della sua stessa famiglia, dilaniata tra l’ossessione nazista e la necessità di voltare pagina.

Anche gli spunti interessanti, come lo zio emigrato di cui in famiglia non si può parlare, o l’amico di giochi che ha una radio che capta le stazioni proibite in cantina o ancora l’economia della platessa affumicata ed essiccata, vera moneta di scambio ad Amrum, rimangono per lo più irrisolti.

La sceneggiatura sbanda più volte e persino alla fine, quando sceglie di chiudere con una svolta romantica del tutto implausibile e improvvisata. Akin poi è capace di pasticciare di suo, come dimostrato molte volte in passato, ma per una volta la sua ambiguità ideologica funziona bene con i temi del film.

Peccato che abbia scelto il più stolido dei giovani attori biondi e ariani come protagonista e gli abbia affiancato una madre a cui non si può non augurare la sorte più miserabile: quando in sottofinale uno dei fratellini di Nanning divora il pane bianco con burro e miele che il fratello ha impiegato l’intero film per regalare alla madre – lo confessiamo – ci è scappato un sorriso soddisfatto.  Così come quando il macellaio la rincorre per farsi restituire un wurstel rubato, davanti a tutto il Paese.

Ma sono segni di un film sbagliato, puerile, che avrebbe potuto essere molto diverso se solo lo spunto narrativo avesse trovato altre parole e altri sguardi.

La stessa Diane Kruger ha un ruolo minimo, poco più di un cameo.

Vanno sprecati anche la notevole dimensione naturalistica dell’isola con la marea che la collega con la terra ferma solo a intermittenza e quella dei tanti personaggi minori, a cui il film regala giusto un paio di battute, schiacciati su uno sfondo da cui avrebbero dovuto emergere.

Pasticciato.

 

 

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