La trilogia delle relazioni di Dag Johan Haugerud si chiude con l’uscita in sala di Sex, che è in realtà il primo film presentato dal regista norvegese alla sezione Panorama del Festival di Berlino del 2024.
Il più debole capitolo centrale, Love, era in concorso alla Mostra di Venezia nel settembre del 2024 e Dreams ha vinto l’Orso d’Oro alla Berlinale a febbraio 2025.
Come gli altri due, Sex è ambientato a Oslo e comincia con una lunga inquadratura sui tetti della città: i due protagonisti – senza nome – sono due spazzacamini, colleghi e amici, che una mattina dopo la solita nuotata, si confessano segreti che scardinano la loro vita personale e familiare.
Il primo, che si professa cristiano, ha sognato di essere desiderato da David Bowie, “come una donna” e da quel momento nella sua voce c’è una nota di tensione che compromette la sua presenza nel coro a cui partecipa e che pian piano diventa un tarlo sempre più invadente e disturbante. Il secondo invece, padre e marito esemplare, confessa di aver ceduto, proprio il giorno prima, alla richiesta inaspettata di un cliente e di aver fatto l’amore con lui, pur senza essere omosessuale e senza la volontà di tradire la moglie, che invece rimane sconvolta dalla rivelazione, così come l’amico.
Le ripercussioni di questi due eventi nella vita dei protagonisti assumono una dimensione surreale e drammatica, spingendoli fuori dalla propria comfort zone.
Anche questa volta la fotografia di Cecile Semec è in grado di cogliere perfettamente la dimensione intima e privata della storia all’interno del più vasto contesto urbano della capitale norvegese: alle prime inquadrature dall’alto che poi torneranno come un leit-motiv a punteggiare l’alternanza delle due storie, segue il lungo piano sequenza di quasi quindici minuti in cui i due protagonisti si raccontano i propri pensieri, sullo sfondo di una enorme vetrata dietro la quale scorre il traffico della città.
Non meno centrale la presenza del panorama nella scena successiva che è quella del confronto tra marito e moglie, sempre in controluce rispetto ad una grande finestra aperta da cui si osserva da lontano una nuova vista su una Oslo estiva, calda e inconsueta.
In Sex i personaggi non fanno altro che parlare, convinti, come probabilmente anche Haugerud, che “la vita si misura dalle persone con cui parliamo. Alcune allargano il tuo mondo, altre lo restringono“.
Come Dreams e come Love, anche questo Sex è un film di parole, che pian piano insinuano nei personaggi dubbi, memorie e sensazioni che assumono una centralità sempre maggiore nelle loro vite, fino a scardinare l’ordinarietà familiare e le sicurezze personali.
Lo spazzacamino che ha avuto un’esperienza omosessuale viene travolto dall’effetto che questo rapporto occasionale suscita nella moglie, letteralmente sconvolta e stupita che quello che lei considera un tradimento non sembri rivestire alcun significato per il marito.
Lo spazzacamino che continua a sognare David Bowie comprende invece pian piano come la differenza tra la propria identità sessuale e la sua manifestazione esteriore attraverso il corpo apra scenari che non aveva mai considerato. L’insegnante di canto gli suggerisce di leggere Hannah Arendt e gli parla della sfera sociale che lo restringe all’interno di un’identità definita dall’adesione ad un gruppo conforme e la sfera pubblica che favorisce invece la sua liberazione come individuo unico, parte di un gruppo più grande con cui relazionarsi per accordi e disaccordi.
Tuttavia, un po’ come avviene anche in Love, Haugerud non riesce sempre a raggiungere la profondità e la ricchezza delle osservazioni di Dreams, ma si accontenta di restare in superficie, soprattutto nella prima delle due storie, quella dell’avventura omosessuale.
Nella seconda parte soprattutto si notano alcune evidenti di cadute di tono: il racconto esemplare del medico che vediamo animato come una parentesi in bianco e nero, la rielaborazione letteraria dei fatti, da parte di uno dei personaggi, come accadeva in Dreams, e soprattutto la performance musicale assomigliano ad inutili sottolineature, forzature in una partitura già chiarissima.
Le riflessioni sulla fedeltà, sul piacere fisico e sulla complicità intellettuale nel matrimonio, sulle pulsioni del desiderio e su ciò che possa essere effettivamente considerato un tradimento all’interno della coppia suonano tutte piuttosto risapute e ordinarie, mai davvero perturbanti.
Più interessante e insolita rimane invece la seconda storia – quella che sembrerebbe secondaria – e che invece assume contorni assai più significativi, un po’ come avveniva anche in Love: la progressiva estraneità al proprio corpo da parte del secondo spazzacamino diventa a poco a poco una delicata presa di coscienza dell’imprevedibilità della nostra vera identità, mutevole e provvisoria più di quanto non vorremmo ammettere.
Il finale poi lascia tutto in sospeso, incapace di chiudere le questioni sollevate se non nella sublimazione di una performance teatrale piuttosto imbarazzante.
Complessivamente se Dreams resta uno dei lavori più intelligenti e provocatori della stagione non si può dire lo stesso degli altri due capitoli della trilogia, che paiono confermare un certo talento affabulatorio di Haugerud, ma che ne mostrano soprattutto i difetti e le superficialità.
Dal 15 maggio in sala.

