A Working Man

A Working Man *1/2

A Working Man è il secondo capitolo della collaborazione tra Jason Statham e il regista David Ayer, già autore dei pregevoli polizieschi Harsh Times, La notte non aspetta da Ellroy e End of Watch e del bellico Fury, prima di incappare nel disastroso Suicide Squad, che ha bloccato la sua carriera per quasi un decennio.

Nasce sotto la stella di Sylvester Stallone, autore del soggetto e produttore.

Sly pensava di fare del personaggio il protagonista di una serie, ma poi con Ayer ha virato su un lungometraggio, tratto dal primo romanzo della serie scritta da Chuck Dixon e dedicata all’ex commando della Royal Marine, Levon Cade.

Ayer ha individuato subito in Statham il protagonista perfetto, dopo averlo diretto in The Beekeeper proprio l’anno scorso. Se tuttavia quest’ultimo funzionava egregiamente ripetendo con precisione certosina la formula ormai collaudata di tutti gli ultimi film dell’attore scoperto da Guy Ritchie, questa volta forse per le impronte lasciate da Stallone in fase di scrittura e produzione, qualcosa non funziona come dovrebbe e il film risulta squilibrato e dal ritmo instabile.

Quale formula direte voi? Semplice, quella che vede il suo personaggio – con un passato rimosso nelle élite militari, poliziesche o anche solo criminali –   farsi testimone di eventi così ignobili e abietti nei confronti di una persona cara, da giustificare l’abbandono di ogni copertura rispettabile e proletaria, per riscoprire le sue qualità brutali di vendicatore, capace di usare ogni arma e ogni muscolo del suo corpo in un’esplosione di violenza che supplisce una giustizia inesistente e una polizia assente se non decisamente corrotta.

Il modello è sempre quello del giustiziere della notte di bronsoniana memoria, dell’antieroe solitario e taciturno, individualista e senza rimorsi: anche qui non fa eccezione.

Levon Cade, vedovo e pieno di problemi per l’affido della piccola figlia, ha lasciato l’esercito inglese, fa il capo cantiere a Chicago e lavora per un constructor latino-americano. Quando una banda di mafiosi russi rapisce Jenny, la figlia del capo, quest’ultimo gli chiede di riportargliela ad ogni costo.

Dopo aver ricevuto la benedizione dal suo vecchio caposquadra, ormai cieco e isolatosi dal mondo, Cade ripercorre gli ultimi spostamenti della ragazza e lascia una scia di sangue che lo porterà ad una villa nel bosco dove i trafficanti di esseri umani hanno condotto la ribelle Jenny, venduta a un pingue sadico con baffetti e riporto.

Cade è una macchina di morte che in due ore passate tra arti marziali, armi bianche, pistole, fucili e mitra non si fa neppure mezzo taglio, mentre monta la retorica à la Rambo del veterano abbandonato da tutti, sfruttato solo per la sua inarrestabile brutalità, in un mondo che è precipitato in Far West in cui i cattivi sono ovviamente sempre russi e la polizia è collusa e complice, del tutto inaffidabile.

Il problema del film non è neppure nell’enorme sospensione dell’incredulità che tocca l’apice nell’assalto finale – uno contro tutti – sotto l’ombra di una luna così enorme da sembrare irreale, quanto piuttosto nei tempi lunghi della detection, che tra buchi e salti logici porta Cade fino a Jenny e poi risolve tutto in un finale che non chiude e lascia tutto in sospeso magari per una prossima avventura.

Ci sarebbe poi molto da dire sulla mancanza assoluta di ogni forma di ironia o autoironia: il film si prende terribilmente sul serio, incapace di giocare con i suoi stessi limite le sue stesse formule.

Cade porta ovviamente su di sé le stimmate dell’Ethan Edwards di Sentieri Selvaggi – il Dio del cinema ci perdoni l’accostamento: il mondo che attraversa gli è completamente estraneo, ma lui ha un unico compito da portare a termine. E quando riporta a casa Jenny non può far altro che abbandonarla al suo destino, cercando però questa volta riparo non nella vastità inesplorata dell’orizzonte americano, ma nella wilderness isolazionista di una cabin in the woods, che sembra uscita dai libri di Thoreau.

Se non fosse per i villain russi, sembrerebbe un film precocemente trumpiano, tutto dalla parte di una working class immaginaria, che i problemi li risolve prendendo il fucile o facendolo prendere a qualche vigilante fuori di testa e che rintana poi con la sua famiglia minima lontano da tutto e dalla modernità stordente delle città, preda di insidie e violenze di ricchi debosciati.

Peccato allora che il film non segua la felice intuizione iniziale in cui Cade difende uno dei suoi uomini usando le armi di fortuna disponibili sul lavoro, reinventando così le coordinate action in modo creativo e realmente proletario: ma è solo un attimo e mostra quello che avrebbe potuto davvero essere questo A Working Man.

Il film invece si adagia su un copione da action hero già visto mille volte e pronto per lo straight-to-platform, da vedere distrattamente e senza preoccuparsi troppo di perdere una scena, perché tutto conduce esattamente dove ci aspetteremmo, in modo paternalista e conformista, per non dire altro.

Deludente.

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