Terzo film di Gia Coppola, nipote di Francis e cugina di Sofia, The Last Showgirl ha debuttato a Toronto a settembre prima di trovare una buona distribuzione negli Stati Uniti e anche un certo riscontro critico soprattutto attorno all’interpretazione di Pamela Anderson come protagonista, una sorta di ritorno al cinema per un’icona sexy degli anni ’90, che Hollywood ha poi velocemente messo da parte.
Il film nasce da uno spettacolo teatrale di Kate Gersten, intitolato Body of Work, a sua volta ispiratole dalla chiusura nel 2016 dello spettacolo Jubilee!, una delle attrazioni più longeve della strip di Las Vegas.
L’ultima showgirl è Shelly Gardner, una bionda cinquantasettenne, che tutte le sere di esibisce vestita quasi solo di piume, ali, chiffon e brillantini nello spettacolo La Razzle Dazzle che scimmiotta la rivista francese in un casinò del Nevada.
La sua vita è fatta di ammiratori che fuggono, una figlia lontana che sta per diplomarsi e un gruppo di amiche che lavorano o hanno lavorato nello spettacolo.
Per le luci della ribalta ha sacrificato tutto e quando Eddie, il produttore dello show la avvisa che la direzione del casinò ha deciso di chiudere la rivista, il mondo improvvisamente le crolla addosso.
Il film è costruito su una drammaturgia minima, con la macchina da presa che pedina senza alcun glamour la sua protagonista fuori e dentro i camerini, disegnando i confini di un’esistenza impossibile nel più eccentrico dei non luoghi americani, nella città creata da Bugsy Siegel.
The Last Showgirl è un ritratto risaputo e al di fuori della centralità ingombrante di Shelly, tutti gli altri personaggi appaiono come comprimari della sua vita. Non c’è nessuna vera solidarietà tra ballerine, nessuna vera comprensione, ciascuno vive per sé e cerca aiuto e conforto solo quando ne ha bisogno, negandolo quando serve agli altri.
Anche nel rapporto con la figlia, Coppola affonda negli stereotipi più consueti di un certo cinema indie, da cui non riesce a liberarsi, nonostante gli esordi siano ormai lontani.
La solita litania di rimorsi & rimpianti, assenze & accuse, rivendicazioni di autonomia e autoaffermazione: tutto telefonatissimo e già visto un milione di volte prima, spesso con altro spessore e autenticità.
E se non fosse per l’interpretazione, francamente sorprendente della Anderson, che sembra scavare nel proprio vissuto personale e raccogliere pezzi della sua biografia per dare sostanza al personaggio, anche Shelly resterebbe a galla per poco.
Invece il film restandole accanto quasi sempre riesce a trovare un motivo d’essere in una sorta di autofiction, di confessione involontaria, che mescola i piani della realtà e della rappresentazione, mostrando tutta la fragilità di un personaggio che non sembra mai aver superato l’adolescenza.
Jamie Lee Curtis si diverte con il ruolo più sgradevole del gruppo, come le accade spesso dopo l’Oscar, Dave Bautista continua la sua galleria di ruoli drammatici, per cercare di uscire dallo stereotipo dell’ex-wrestler, mentre a Kiernan Shipka e a Billie Lourd toccano i due ruoli filiali, fra sgradevolezze e compassione.
Notevolissima invece la fotografia in 16mm e quasi sempre con camera a mano di Autumn Durald Arkapaw (Black Panther: Wakanda Forever, Sinners), che dona al film un aspetto crudo, da cinema-verité, trattenendo tutta la grana dei notturni e degli interni di Las Vegas.


