The Monkey

The Monkey **1/2

Oz Perkins sembra aver costruito la sua intera filmografia da regista come una sorta di perlustrazione dell’universo horror, che rese eterno il padre Anthony, attraverso le sue diverse declinazioni narrative.

Dopo la haunted house di Sono la bella creatura che vive in questa casa, con echi evidenti dell’universo di Shirley Jackson e la fiaba gotica completamente rivisitata di Gretel e Hansel, forse il più riuscito dei suoi lavori, il ritratto del serial killer maligno di Longlegs, uscito solo pochi mesi fa, sembrava trovarlo in una sorta di impasse, già maniera di sé, terribilmente serioso, ad occupare un posto in prima fila nella deriva più deludente di quello che viene chiamato elevated horror.

The Monkey rappresenta in questo senso la chiusura di un cerchio rispetto alla dimensione psicologica e al trauma della perdita e dell’abbandono che erano al centro del suo debutto, February, e al tempo stesso la declinazione personale di un adattamento kinghiano, banco di prova inevitabile per ogni regista americano che si provi a fare i conti con il genere.

Fortunatamente questo nuovo film distribuito in Italia da Eagle e negli USA da Neon è invece fortemente influenzato dalla mano pop di James Wan, qui in veste di produttore: la violenza è talmente esagerata nella sua dimensione grafica da risultare paradossalmente innocua e assai poco inquietante, mentre continuano ad emergere i temi ricorrenti del cinema di Perkins.

L’incipit è affidato ad un Adam Scott in trasferta da Severance: il film si muove su coordinate estreme ma autoironiche, talmente fantasiose da costruire i suoi spaventi sull’imprevedibilità delle cause e degli effetti, piuttosto che sui soliti trucchi, dall’uso del fuori campo ai jump scare.

Fin dalla premessa la struttura del film è chiarissima: la scimmietta del titolo regalata dal padre pilota ai due gemelli Hal e Bill di ritorno da un viaggio e abbandonata dietro di sé in occasione della fuga dalla propria famiglia e dalle proprie responsabilità, diventa un sinistro meccanismo di morte. Quando si aziona la molla interna con la chiave e the monkey batte sul suo piccolo tamburo qualcuno improvvisamente muore nel modo più atroce e inaspettato: la prima volta accade con un topolino che rosica la corda a cui è ancorata una balestra che colpisce in pieno stomaco il proprietario del banco dei pegni a cui il padre dei due protagonisti ha riportato la scimmietta inutilmente.

Seguiranno quindi una serie infinita “incidenti”: la madre dei ragazzi, lo zio a cui sono stati affidati e tanti altri, in una lunga scia di sangue che i due fratelli interrompono ancora bambini gettando the monkey in un pozzo.

Venticinque anni dopo la maledizione si ripresenta. Ma chi sta girando la chiave della scimmietta questa volta?

Hal ha cercato di allontanare da sé il figlio Petey per evitare di trasmettergli l’onta familiare, ma quando la vecchia zia muore tragicamente, è costretto a tornare a Casco nel Maine per rimettere a posto le cose.

Il film è indubbiamente divertente, si prende apparentemente poco sul serio, sfodera il sarcasmo e l’ironia, ma cerca sottotraccia di imbastire un discorso molto serio sul senso di abbandono e sull’inevitabilità della morte, sul lutto, sul senso di colpa che l’accompagna, spesso in modo inconsapevole.

Perkins ha lavorato su una prima idea molto cupa dello script originale, ispirato al racconto La scimmia di Stephen King, pubblicato la prima volta nel 1980 sulla rivista Gallery e poi inserito nella celebre raccolta Scheletri del 1985, che conteneva anche The Mist. Si è presto accorto che quell’approccio non poteva funzionare per lui: “Il problema con questa scimmia giocattolo è che le persone intorno a lei muoiono tutte in modi folli. Quindi, ho pensato: beh, sono un esperto in materia. Entrambi i miei genitori sono morti in modi folli, da prima pagina. Ho trascorso gran parte della mia vita a riprendermi da una tragedia, sentendomi piuttosto male. Tutto sembrava intrinsecamente ingiusto. Personalizzi il dolore: ‘Perché sta succedendo a me?’ Ma quando sei più grande ti rendi conto che questa merda succede a tutti. Tutti muoiono. A volte nel sonno, a volte in modi veramente folli, come ho sperimentato io. Ma tutti muoiono. E ho pensato che forse il modo migliore per affrontare questa folle idea era con un sorriso”.

Anche qui Perkins cerca di raccontare la persistenza del male nelle nostre vite, come personificazione di tutto quello che non riusciamo a comprendere, senza mai fare la voce grossa, lasciando passare il suo messaggio grazie ad un film divertente, di puro intrattenimento, riprendendo l’idea della scimmia, già usata da Romero e più recentemente da Peele, come simbolo del confine sottile che ci separa dalla bestialità ferina

Sulla scatola che la contiene c’è scritto “like life” ed in fondo il caos che genera è proprio quello che non riusciamo a comprendere e che i protagonisti attribuiscono in modo simbolico proprio al piccolo giocattolo.

Hal smette così di vivere, assediato dalle paure, dalle superstizioni, da eventi in cui trova continuamente conferma della maledizione che grava sulla sua famiglia. Se nella seconda parte il moltiplicarsi dei cadaveri toglie ogni dubbio residuo, la prima parte del film mantiene una feconda ambiguità: è davvero la scimmia a provocare deterministicamente la morte o è solo un catalizzatore delle ansie e dei sensi di colpa del protagonista?

Pur allontanandosi molto dall’originale racconto di King, il film è intimamente kinghiano, nel suo racconto diviso a metà tra adolescenza ed età adulta, nelle sue figure paterne imbarazzanti e assenti, nelle metà oscure qui esemplificate nei due gemelli diversi, nel male incarnato in un oggetto ordinario e apparentemente innocuo, che ha un’influenza decisiva.

La regia gioca a disattendere le aspettative dello spettatore, alternando primi e primissimi piani della scimmia, del suo braccio alzato, del suo ghigno inquietante, dei suoi occhi spalancati, alla violenza splatter che sembra produrre. Non sempre poi la costruzione delle premesse viene appagata: talvolta Perkins sceglie di tagliare l’orrore attraverso un’ellissi, come accade per la morte dello zio, altre volte invece decide di mostrare tutto, come accade con la morte provocata dalle api in sottofinale. Le scelte contribuiscono ad aumentare la dimensione ludica del film, mettendo la sordina alla sua carica emotiva.

Perkins guarda inevitabilmente anche al cinema di Raimi, capace di mescolare spaventi e commedia, con ironia feroce e anche politica, ma non si spinge sino in fondo, preferendo restare nell’ambito più confortevole della parodia e dello spettacolo, che depotenzia la serietà dello spunto iniziale e rifiuta ogni riflessione sul perturbante.

E’ un peccato che il film non coltivi di più lo spunto contenuto nel racconto di King, appiattendosi nella seconda parte in cui la scimmia diventa in tutto e per tutto un’arma apocalittica di vendetta.

Luci e ombre.

 

 

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