We Live in Time – Tutto il tempo che abbiamo

We Live in Time – Tutto il tempo che abbiamo **1/2

Il nuovo film dell’irlandese John Crowley (Brooklyn, Il cardellino) è il più classico dei tearjerker: una commedia sentimentale e lacrimevole su una coppia destinata a separarsi troppo presto a causa di una malattia terminale.

Anche se non avessimo letto nulla, nè visto i trailer di questo We Live In Time l’esito della storia di Almut e Tobias lo intuiamo immediatamente dopo l’incipit, perché la scelta del drammaturgo e sceneggiatore Nick Payne è quella di rompere la linearità narrativa della storia, montandone piccoli frammenti senza rispettare l’ordine temporale, ma seguendo il flusso emotivo dei ricordi.

Un pezzo alla volta conosciamo così la chef stellata Almut, già celebre pattinatrice sul ghiaccio, che sta per aprire il suo nuovo locale e investe con la sua Mini il rappresentante dei cereali Weetabix Tobias, a cui la moglie ha appena mandato le carte del divorzio.

I due si piacciono subito, poi si lasciano perché le priorità familiari di due trentenni possono essere molto diverse. Finiscono per tornare assieme, fare una figlia e combattere due volte una battaglia contro il cancro, che si porta via l’aria che i due vorrebbero continuare a respirare assieme.

Niente di nuovo: Love Story ha definito le coordinate di questo sottogenere oltre mezzo secolo fa e con qualche variazione tutti vi si sono attenuti.

Crowley ha tuttavia due fortune: innanzitutto i due protagonisti non sono due adolescenti e hanno avuto una vita piena prima di incontrarsi, che emerge a poco a poco nel corso del film, arricchendo la personalità dei due protagonisti, i quali non restano interamente schiacciati nella dimensione della loro relazione sentimentale.

Inoltre la scelta di disarticolare lo sviluppo drammatico, raffredda la temperatura emotiva del film, che evita l’inevitabile deriva melò.

L’aver fatto di Almut un personaggio pieno due volte fuori dalla  norma, sia come pattinatrice, sia come chef, è un altro elemento forte che dà conto di una personalità autorevole, emancipata, pienamente consapevole.

La scelta di non rinunciare a concorrere al Bocuse l’Or, una sorta di mondiale della cucina per nazioni, dopo aver ricevuto la diagnosi della recidiva sembra darci la misura del suo personaggio, incapace di schiacciarsi nel contesto familiare e desiderosa invece di utilizzare il tempo che le rimane per lasciare orgogliosamente un segno, per se stessa e per i suoi cari.

Il messaggio è moderno, significativo e non riduce al dramma imminente la complessità anche contraddittoria della vita della sua protagonista.

Ed è proprio nel tentativo di costruire con Almut un carattere originale che il film di Crowley trova la sua ragion d’essere.

Aiutato in questo dall’interpretazione di Florence Pugh, uno dei talenti più significativi della sua generazione, qui perfettamente a suo agio ai fornelli di una cucina stellata come nei contesti più intimi e sentimentali. Mentre Andrew Garfield mantiene la sua solita espressione stupita e gioiosamente confusa e compiaciuta per il tutto il film, a lei tocca un tour de force che coinvolge trucco, abiti, acconciature, un parto in diretta nel bagno di un autogrill e persino un taglio radicale dei capelli, che avrebbe penalizzato l’espressività di molte sue colleghe e che invece lei riesce a gestire senza eccessi.

Si carica il film sulle spalle e con la sua simpatia istintiva trascina gli spettatori dalla sua parte, in modo semplice, senza bisogno di scene madri. 

In ogni caso, portate i fazzoletti.

 

E tu, cosa ne pensi?

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.