Rebel Ridge

Rebel Ridge **1/2

Dopo il passo falso di Hold The Dark, girato per Netflix nel 2018, Jeremy Saulnier (Blue Ruin, Green Room) sembra voler tornare alle radici del suo cinema con questo secco e implacabile revenge movie, scritto e diretto in prima persona e intitolato Rebel Ridge, funestato prima dal Covid che ha rinviato le riprese di un anno e poi dall’abbandono di John Boyega, che ha mollato il set a metà riprese, costringendo la produzione ad un nuovo rinvio nella primavera del 2022.

Aaron Pierre (La ferrovia sotterranea, Old), ha preso il suo posto al centro di una storia che parte con il più classico dei soprusi polizieschi e che poi rivela nuovi livelli di immoralità e violenza degli uomini in blu.

L’ex marine Terry Richmond ascolta la musica nelle cuffie mentre guida in bicicletta per recarsi nel piccolo paesino di Shelby Springs, dove è detenuto il cugino Michael: ha venduto le quote di un ristorante e la macchina per mettere assieme i soldi della cauzione.

Bruscamente fermato dalla polizia che sostanzialmente lo investe in auto, Terry si vede sequestrare i 36.000 dollari in contanti trasportati nello zaino, sul sospetto che provengano da attività illecita.

Nessuna cauzione, nessun cugino, nessuna giustizia.

L’unica che cerca di aiutarlo è un’impiegata dell’ufficio del tribunale che si occupa delle bail, Summer McBride. I due finiscono così per pestare i piedi al capo della polizia locale, Sandy Burnne, che gestisce il suo incarico con piglio criminale, ammassando armi e denaro in modo quantomeno sospetto.

Alla fine sarà un giudice a svelare la macchinazione: per evitare la bancarotta della città dopo il risarcimento per un arresto illegale, qualunque forestiero che passi per Shelby Springs viene arrestato e trattenuto per 90 giorni per reati minori, impedendogli  l’accesso ai difensori d’ufficio e ai filmati di arresto della polizia prima della scadenza del periodo di conservazione dei dati.

Il film di Saulnier è un B-movie con una vena civile e politica appena capace di dare sostanza al solito meccanismo che prevede atrocità e soprusi polizieschi e cui i nostri eroi finiscono per rispondere con l’intelligenza e la determinazione.

Qualcuno resterà vittima delle macchinazioni e delle coperture che raggiungono i più alti livelli, ma Terry non si farà intimidire e una prima possibilità di fuga verrà negata dalla lealtà verso Summer.

Sullo sfondo resta una legge assurda vecchia di quattro secoli, lo spettro della credibilità di una madre di fronte ad un divorzio complicato, il meccanismo fuori dal tempo delle cauzioni e il solito potere dei poliziotti bianchi e fascisti che viene esercitato senza alcun limite, nonostante le telecamere sulle auto e qualche minima accortezza liberale e garantista, immediatamente resa muta: le sirene non si accendono, le schede coi video spariscono, i server vanno a fuoco e quello che resta è solo la resistenza del singolo.

Saulnier ritrova almeno una certa efficacia narrativa, lo spirito originario del suo cinema croccante immerso nel genere fino alle radici e una capacità di gestire tempi e azione con una certa geometrica competenza.

Il finale appare in questo senso un po’ troppo consolatorio, risolvendo in modo semplicistico una situazione apparentemente disperata.

Il film ha una dimensione evidentemente western, per ambientazione, tono, personaggi e situazioni, con lo straniero che piomba in città con il ruolo della vittima sacrificale e che invece si rivela assai più perspicace e resiliente, cominciando a scavare nel torbido e smascherando lo sceriffo corrotto e i suoi scagnozzi.

Niente di nuovo sotto il sole, tuttavia almeno ci ritroviamo di fronte ad un lavoro carpenteriano, che lascia emergere una dimensione morale dalle rovine di un film di puro mestiere. E che gioca con il razzismo in modo controintuitivo nell’unica scena in cui Terry commette un errore di valutazione.

Considerando la piega che ha assunto l’ultima sciagurata produzione Netflix, è un esito almeno confortante.

Ottimo Aaron Pierre, che ha una presenza e uno sguardo che non si dimenticano facilmente, mentre Don Johnson ripete l’ennesimo ruolo da villain con sempre meno convinzione e l’anonimato è il destino di tutti gli altri attori del cast.

Delle radici indie di Saulnier rimangono un certo spirito indomito, lo sguardo politico e la capacità di raccontare l’america profonda con un’economia di mezzi encomiabile.

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