Un piedipiatti a Beverly Hills: Axel F *1/2
Sono passati quarant’anni dal debutto cinematografico di Axel Foley, il poliziotto di strada di Detroit, insubordinato e istrionico, costretto a inseguire gli indizi di un omicidio sino alla più fancy Beverly Hills.
La saga che Jerry Bruckheimer – il padre putativo di tutto il cinema action degli anni ’80 – avrebbe voluto interpretata da Mickey Rourke e che per un lungo periodo ha pensato di affidare a Sly Stallone, è diventata invece celeberrima grazie al coinvolgimento di Eddie Murphy, allora una giovanissima star del Saturday Night Live, che era appena passato al grande schermo girando 48 ore di Hill e Una poltrona per due di Landis.
Il newyorkese Martin Brest, premiato alla Mostra di Venezia per il suo esordio con Vivere alla grande, appena esautorato da WarGames, aveva diretto con brio e intelligenza il copione di Daniel Petrie Jr e il poliziesco, affidato alla fotografia dell’eastwoodiano Bruce Surtees, aveva rapidamente virato nella commedia action, anche grazie ad una serie di indovinati caratteristi, tra cui la coppia di detective formata da Rosewood e Taggart, incaricati di sorvegliare Foley nel lussuoso quartiere losangelino.
La colonna sonora synth di Harold Faltermeyer e la hit scritta da Glen Frey, The Heat is On, avevano contribuito a trasformare Beverly Hills Cop in un classico istantaneo, un figlio di quella leggerezza ottimista degli anni ’80, capace di generare due sequel minori nel decennio successivo, affidati a Tony Scott e John Landis.
Questo quarto capitolo ha una storia lunga altri dieci anni, prima affidato a Brett Ratner, quindi passato alla coppia Adil El Arbi e Bilall Fallah (Bad Boys Ride or Die), infine all’australiano Mark Molloy, con grande esperienza in video e commercial, ma al debutto alla regia.
Il copione finale è firmato dall’ex LAPD detective Will Beall (Aquaman, Zack Snyder’s Justice League, Bad Boys Ride or Die) e ruota attorno alla scomparsa di Rosewood, ora investigatore privato, dopo essersi congedato dalla polizia e sulle tracce di un caso di omicidio che sembra far emergere il marcio nel dipartimento comandato da un anziano e acciaccato Taggart.
Foley nel frattempo è ancora a Detroit, indisciplinato e testardo come sempre, ma quando il caso di Rosewood finisce per coinvolgere anche Jane, la figlia di Axel, che vive a L.A. ed ha assunto la difesa dell’innocente, incastrato per l’omicidio, il protagonista vola ancora una volta a Beverly Hills per cercare di aggiustare le cose, trovando un alleato nel Detective Bobby Abbott, ex fidanzato della figlia.
Il villain di questa storia non potrebbe essere che un’altra icona degli anni ’80, Kevin Bacon, nei panni costosissimi di un Capitano corrotto e senza scrupoli.
Il film di Molloy affonda nella nostalgia recuperando tutto quanto possibile dal capostipite, riciclando temi, musiche, caratteri e attori, ma il risultato è senile, a dir poco.
Il ritmo formidabile dell’originale, sostenuto dalle note del synth di Faltermeyer, qui è il grande assente di una storia che si muove invece in modo farraginoso, con un andamento sgangherato ed episodico e che butta via la parte di detection chiarendo dopo 5 minuti tutti i ruoli in commedia, senza mai un colpo d’ala.
L’unica scena che davvero funziona è quella nel locale del trafficante Chalino, cantante appassionato, che Luiz Guzman interpreta con formidabile ironia e che si mangia in un solo boccone Murphy e Gordon-Levitt.
Il resto è affidato ai vecchi personaggi e ad un recupero fuori tempo massimo di agenti che dovrebbero tutti essere in pensione da molti anni. E che invece arrancano sul grande schermo, in modo piuttosto goffo.
Anche la parte comica è davvero mal costruita e il film non strappa mai una mezza risata: Eddie Murphy sembra il più disposto a ripercorrere le orme del passato, ma il copione gli lascia davvero troppo poco su cui lavorare e il rapporto patetico padre-figlia non riesce mai davvero a rendere interessanti personaggi che sembrano appena abbozzati, ciascuno fedele ad un cliché mai vivificato.
Il risultato è l’ennesimo film che strizza l’occhio ad un pubblico affezionato, senza davvero regalargli nulla di interessante, in un gioco cinico di sfruttamento e svilimento di un immaginario giovanile, che oggi non riesce a far altro che ripetere stancamente se stesso.
Inutile dire che questa ennesima delusione la trovate su Netflix, sempre più simile ad cimitero di elefanti.
