Il regno del pianeta delle scimmie

Il regno del pianeta delle scimmie **1/2

Cesare è morto. Il corpo della scimmia che ha condotto i primati verso un’oasi di pace, nel mondo precipitato nel caos a causa di un virus che ha decimato e inebetito la popolazione umana, brucia su una pira funeraria.

Molte generazioni dopo quella prima colonia si è divisa in diversi clan, alcuni del tutto ignari della rivolta e della stessa esistenza del loro patriarca.

Il giovane scimpanzé Noa vive in un piccolo gruppo di scimmie dedite all’allevamento delle aquile, che ha occupato due vecchi tralicci della corrente.

Quando gli uomini di Proximus, proclamatosi nuovo Cesare, fanno razzia nel loro clan e deportano tutte le scimmie superstiti, Noa creduto morto, si mette in viaggio per ricongiungersi alla sua famiglia e ai suoi amici.

Sulla sua strada incontra Raka, un orango che vive in solitaria, dopo essere scappato dal regno che Proximus intende costruire. Quest’ultimo gli racconta la storia di Cesare e del mondo perduto degli umani.

Ai due si unisce un’umana, che chiamano Nova. Quando i tre arriveranno infine al forte eretto da Proximus sulla spiaggia di fronte all’ingresso di un vecchio bunker umano, il regno che troveranno sarà molto diverso da quello immaginato.

Quarto capitolo del reboot del Pianeta delle scimmie, distopia fantascientifica firmata da Pierre Boulle negli anni ’60 e portata a cinema in un epocale film di Franklin Schaffner del 1968 con Charlton Heston come protagonista, questo nuovo episodio è ambientato nell’universo creato da Rick Jaffa e Amanda Silver per Rupert Wyatt nel 2011.

La coerenza narrativa interna, il piano metaforico e politico del mondo regredito a misura di primati e il lavoro sopraffino di performance capture di Andy Serkis hanno consentito a questa nuova serie di imporsi come una delle migliori operazioni di recupero di un immaginario, pur ampiamente sfruttato sin dalle sue origini.

Il lavoro del regista Wes Ball e dello sceneggiatore Josh Friedman (La guerra dei mondi, Black Dahlia, Avatar – La via dell’acqua, Snowpiercer – La serie, Foundation), è stato quello di creare un esile legame con la trilogia di Cesare, costruendo tuttavia le premesse per un racconto interamente nuovo, con nuove sfide e nuovi personaggi.

Il film è attraversato tuttavia da un gustoso spirito citazionista: appaiono più volte tracce e segni del capostipite e dei film successivi, dai nomi dei personaggi alla rappresentazione della spiaggia su cui si sono riversate le rovine della nostra civiltà fino ad intere scene, come quella della caccia con le reti agli eco – gli umani regrediti a esseri senza parola e senza intelligenza.

Anche l’ultimo atto che si svolge all’interno del bunker umano richiama significativamente le battaglie di Cesare.

Capace di emozionare con la semplice scoperta di un telescopio spaziale, sepolto dalla vegetazione, il film avrebbe meritato un montaggio più serrato, ma ha prevalso il ritmo disteso di un’avventura che guarda all’archetipo western con competenza, ma senza ossessione.

Quella che rimane più sfumata è la dimensione politica, la capacità di rappresentare in filigrana i conflitti della modernità, qui messa un po’ in secondo piano dalla rappresentazione classica di un regno instaurato da un tiranno, distrutto dalla sua sete di potere, dalla sua hybris.

L’eredità di Cesare è un ricordo del passato ormai corrotto e distorto da una tradizione orale usata a proprio vantaggio.

Il mito si fa pretesto e la memoria si confonde con la Storia.

Qualcosa di diverso riemerge solo nella coda finale, quando la natura predatoria dell’uomo e l’incapacità di vivere in sintonia con il nuovo ecosistema, sembra costituire la sostanza dei prossimi sviluppi narrativi della saga.

La presenza di Jaffa e Silver tra i produttori ha garantito una coerente serietà di questo nuovo riavvio.

Ora la palla passa al pubblico. Difficile che il nuovo film, senza star di rilevo, neppure nei pochissimi ruoli umani, possa eguagliare i numeri dell’ultima trilogia, ma non bisogna sottovalutare la forza di un immaginario che ha saputo attraversare gli ultimi sessant’anni di cinema americano resistendo ad ogni moda.

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