Road House

Road House *1/2

Il regista Doug Liman, che l’ha diretto a partire dal piccolo film di culto del 1989 interpretato da Patrick Swayze, l’ha abbandonato al suo destino senza neppure presentarsi alla prima al SXSW, dopo che Amazon e Mgm hanno deciso di lanciarlo solo sulla piattaforma digitale.

Lo sceneggiatore originale David Lee Henry ha fatto causa alla produzione per violazione del copyright e per aver impiegato l’A.I. per terminare in tempo il missaggio del film durante lo sciopero.

A difendere così questo nuovo Road House è rimasto il solo Jake Gyllenhaal, protagonista nei panni di Elwood Dalton, un ex campione di MME, finito a combattere per pochi dollari in arene clandestine, a causa di un incidente che il film chiarirà solo verso la fine.

Frankie, la proprietaria del Road House di Glass Key in Florida, vuole affidargli l’incarico di sorvegliare il suo locale come buttafuori perchè una gang di motociclisti violenti ha preso a frequentarlo, nel tentativo di convincerla a cedere l’attività al giovane boss locale Ben Brandt, che su quell’area ha messo gli occhi per una sua speculazione immobiliare.

Dalton sulle prime non ha nessuna intenzione però di farsi coinvolgere in nuove violenze, ma quando il padre di Brandt invia a Glass Key il feroce Knox l’escalation diventa inevitabile.

Questo remake poco ispirato sembra anche partire su note risapute ma in qualche modo realistiche, poi la storia prende una piega da cartoon, con violenza parossistica, overacting di involontaria comicità e Liman finisce per perdere completamente la rotta di un lavoro che va alla deriva completamente, tra duetti romantici improbabili, sentimentalismi forzati, scene di inutile spettacolarità e qualche buona idea di messa in scena della violenza, che finisce completamente sommersa nel marasma generale.

L’unico a crederci sembra Gyllenhaal che recita tutto il film cerca di emulare la coolness di Swayze, ma attorno a lui non si accorge che monta il ridicolo.

Nonostante il duro allenamento che ha definito muscoli e pettorali in modo fin preoccupante, l’attore si riduce a menare le mani quasi solo con il vero campione Conor McGregor che vorremmo non aver mai visto davanti ad una macchina da presa.

Non meno sconcertante il villain interpretato da Billy Magnussen, ormai abbonato a ruoli fuori scala di sovrana stupidità.

Non c’è davvero quasi nulla da salvare di questo film, se non lo scheletro narrativo originale, che uno dei personaggi identifica come un classico western, con l’eroe solitario e straniero che arriva in città per riportare l’ordine, finendo travolto dagli eventi.

Peccato che su questo esile ed ancora efficace canovaccio, gli sceneggiatori di Liman abbiamo aggiunto muscoli inutili, un po’ come avvenuto allo stesso Gyllenhaal, coinvolto in un progetto che non aggiunge nulla alla sua carriera e che svilisce solamente il talento che tutti conosciamo.

Da dimenticare.

 

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