Civil War

Civil War **1/2

Acclamatissimo al SXSW dove ha debuttato da qualche giorno, anticipando di un mese circa l’uscita nelle sale per A24, il nuovo film di Alex Garland (Ex Machina, Annientamento, Men), è un diario di guerra, al seguito di un manipolo di giornalisti e fotogiornalisti in viaggio tra New York e Washington, in un’America del prossimo futuro dilaniata da una guerra civile.

Texas e Califonia hanno infatti formato una coalizione degli Stati dell’Ovest e marciano sulla capitale, dove un Presidente assediato nella Casa Bianca trasmette messaggi patriottici e di propaganda. Nel frattempo anche la Florida si è ribellata lasciando il Paese in preda del caos generalizzato con militari ed eserciti contrapposti ad affrontarsi nelle città.

I protagonisti sono Lee una rinomata fotografa freelance e il suo socio Joel, che si mettono in testa di raggiungere prima Charlottesville, che rappresenta la linea del fronte e quindi la Capitale, per intervista il Presidente, prima che capitoli alle “Western Forces”.

Con loro si spostano anche l’anziano giornalista del New York Times Sammy e la giovanissima aspirante fotografa Jessie, che vorrebbe emulare Lee, ma ha ancora molto da imparare.

Nel più classico dei viaggi d’avventura i quattro si troveranno ad affrontare una realtà ancor più atroce di quella immaginata, passando attraverso parchi giochi in cui si annidano letali cecchini, scene di guerriglia urbana, cittadine che sembrano vivere una illusoria normalità, fattorie dell’orrore in cui i corpi vengono seppelliti in fosse comuni, pompe di rifornimento in cui la benzina non ha più un prezzo.

Garland, romanziere e sceneggiatore inglese prestato al cinema, dopo il successo di The Beach, 28 giorni dopo e Non lasciarmi, sembra molto più interessato a mostrare uno scenario post-apocalittico e un campionario di violenze e orrore piuttosto che ad imbastire una riflessione politica sugli Stati Uniti e la sua deriva antidemocratica e bellicista.

Il film sembra interessato solo all’aspetto più autoevidente del conflitto e alla sua rappresentazione, seguendo il precetto della protagonista Lee: “siamo giornalisti e il nostro compito è mostrare tutto senza alcuna reticenza“.

Anche se il fotogiornalismo di guerra, i suoi rischi e la sua etica sembrano pian piano prendere uno spazio maggiore all’interno del film – con il personaggio di Lee che assume una posizione di mentore rispetto alla più giovane e inesperta Jessie, che pure impara in fretta e sul campo fino a soppiantare la più celebrata collega durante l’assedio di Washington – Civil War rimane ambiguo e piuttosto superficiale anche da questo punto di vista, lasciando sullo sfondo la discussione sui limiti del visibile, sul ruolo testimoniale del reporter, sui confini tra realtà e rappresentazione e sulla neutralità dello sguardo.

Dovrebbero essere i rovelli della protagonista Lee, soprattutto nei riguardi dell’aspirante Jessie, ma è evidente che il suo personaggio si trovi improvvisamente perduto nelle sue sicurezze e quindi travolto dagli eventi, incapace di insegnare alcunché alla più giovane.

Il film, costruito classicamente come una lunga teoria di incontri e di tappe in progressivo avvicinamento alla Casa Bianca, non è privo di un’evidente efficacia drammatica, che si esaurisce tuttavia nella singolarità di ogni nuova epifania, incapace di testimoniare un racconto complesso e un discorso politico su un Paese sempre più dilaniato dal punto di vista sociale e sfiduciato nelle sue istituzioni confederali, stressate nell’ultimo decennio in modo sempre più forte.

Civil War dosa con precisione sospetta i suoi elementi, le sue dicotomie sono sempre esplicite e le contrapposizioni non servono a produrre senso, ma a mostrare come tutto in fondo sia uguale.

Garland continua la sua riflessione personalissima sulle immagini e sulla messa in scena dell’orrore, in un film che sembra fratello del suo Annientamento, per molti versi, accompagnandoci in una nuova immersione in un mondo reso alieno alla sua protagonista, nel quale pretende che lo spettatore abdichi al suo punto di vista, obbligandolo ad una centralità mediana e neutrale che è una forzatura ingenua, contraddetta da un paio di secoli di riflessioni sulle immagini.

Civil War non manca di forza simbolica, a cominciare dalla sua traiettoria che comincia da un attentato nel cuore di New York, si sposta nell’America rurale poi si conclude con un assalto alla Casa Bianca, da parte di un esercito che ha sostituito le cinquanta stelle della bandiera alle due del “Western Front”.

Non è un caso che all’inizio le immagini del presidente che prova uno dei suoi discorsi alla nazione venga inframmezzato da immagini di scontri reali e di manifestazioni di rivolta, che hanno segnato la storia recente degli Stati Uniti, sino all’insurrezione di Capitol Hill del 2021, in occasione del passaggio di consegne tra Trump e Biden.

La capacità di Garland di orchestrare grandi scene di massa come di giocare con la tensione, con le assenze e i vuoti, anche quelli del nostro immaginario contemporaneo, è indubbiamente pregevole e contribuisce a creare momenti di puro terrore, come nella lunga parentesi con il sempre formidabile Jesse Plemons, nei panni di un soldato sadico con dei buffi occhiali rossi.

Il film è tuttavia un guscio vuoto, a cui si assiste con sempre maggiore scetticismo, in cui non ci sono fronti per cui parteggiare, le ragioni della rivolta rimangono nella sfera del non detto e quello che resta è una violenza brutale e disumana che sembra contagiare le due parti che si affrontano.

Come ha scritto Gianni Canova forse è proprio in questa voluta ambiguità, in questa assenza di motivazioni ideologiche il film trova il suo lato più sinistro, riempiendosi di piccole vendette, di violenze private, di odio sociale. Banalità del Male e stupidità autodistruttiva.

Brutalità per cui nessuno intende fare prigionieri e che non sembra turbare più di tanto i quattro giornalisti, a meno che non sia rivolta verso di loro direttamente, è l’ennesimo riflesso di un film che assume ad ogni passo ulteriore, una dimensione puramente horror.

Lo scenario mostrato da Civil War non è così diverso da quello che abbiamo conosciuto nei film e nei documentari che hanno raccontato la Siria, l’Ucraina, l’Afghanistan o che racconteranno quanto sta accadendo nella striscia di Gaza.

E’ tuttavia uno scenario interamente militare dove la politica ha smesso di giocare un qualsiasi ruolo, nel mediare i conflitti, nel prevenirne l’escalation, nel trovare soluzioni alle disparità sociali e alla richiesta di giustizia. Garland forse vuole raccontarci la crisi identitaria di un Paese che ha perso se stesso e si riscopre terra di frontiera e di sangue. Tuttavia il film è sempre troppo timido nel proporre idee, limitandosi a mettere in scena i suoi traumi in tutta la loro follia. Le domande sono certamente giuste, le risposte restano sospese. Resta piuttosto l’inquietudine di uno scenario che sembra un’anticipazione lungimirante su quello che potrebbe accadere davvero.

Quanto alle interpretazioni dei protagonisti, Kirsten Dunst attraversa il film con una sola espressione corrucciata e depressa e la sceneggiatura non le dà molto su cui lavorare se non attraverso il rapporto con Jessie che diventa personale e quasi materno, mettendo in crisi le sue certezze professionali; Wagner Moura e Stephen McKinley Henderson sono poco più che comprimari; mentre molto più interessante è Cailee Spaeny nel ruolo di Jessie: il suo è l’unico personaggio che nel film si muove su coordinate trasformative ed è quello che pian piano si prende la scena interamente. L’attrice vista anche in Priscilla di Sofia Coppola, qui ha almeno un ruolo interessante su cui lavorare, anche se il suo percorso è piuttosto prevedibile.

A Garland non sembrano interessare i motivi e le cause quanto testimoniare le conseguenze. Solo che così il suo film è schiacciato in una drammaturgia in cui il campionario di atrocità è prevedibile e atteso e anche un po’ pornografico nella sua insistenza rappresentativa, testimoniata poi nelle belle immagini in pellicola bianco e nero riprese da Jessie e Lee, nessuna delle quali tuttavia ha la forza iconica di quelle scattate da Saul Loeb nell’assalto del 6 gennaio 2021.

Su una di queste immagini il film si chiude, in modo un po’ troppo furbo, strizzando l’occhio a tutte le parti: non è un caso se la coalizione del “Western Front” sia composta dallo stato più democratico, la California, e da quello simbolo dei conservatori, il Texas.

Con i suoi 50 milioni di dollari di budget è il film più costoso mai prodotto dalla A24.

Irrisolto.

In Italia dal 18 aprile per Raicinema e Leone Film Group.

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