“Il potere sulla spezia significa potere su tutto”
Il film si apre con il diario della principessa Irulan, che racconta come il padre, l’Imperatore Shaddam IV, si sia chiuso in un silenzio profondo, dopo la fine della battaglia su Arrakis, con la morte del Duca Leto e la decimazione della casata degli Atreides.
Nel frattempo gli Harkonnen si sono ripresi Dune e hanno ricominciato ad estrarre la spezia ai ritmi di prima, con Rabban a capo delle operazioni.
Nonostante le imboscate degli uomini degli Harkonnen, Paul e Lady Jessica vengono accompagnati da Stilgar e Chani allo Sietch Tabr, una delle comunità sotterranee in cui si nasconde un popolo molto più forte e numeroso di quanto si creda, che sta raccogliendo da secoli l’acqua per cambiare la natura desertica di Arrakis.
I Fremen originari del sud del pianeta, come Stilgar, sono devoti alla profezia diffusa dalle Bene Gesserit sull’imminente arrivo di un Messia e liberatore, Lisan Al Gaib, mentre Chani che è nata nel nord, comprende quanto sia pericolosa la fede in un salvatore.
Lady Jessica ne è pienamente consapevole e spinge Paul verso un destino che il giovane figlio del Duca Leto è riluttante ad abbracciare: le visioni apocalittiche dei possibili futuri che attendono i Fremen e l’amata Chani pesano sulla coscienza del giovane erede.
Su Giedi Prime invece si mette in luce lo spietato Feyd-Rautha, il nipote preferito del Barone e della Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam, che guida le trame imperiali e che vorrebbe prometterlo a Irulan…
Villeneuve ha accentuato l’aspetto avventuroso del racconto originario, più vicino al ciclo arturiano che non alla fantascienza moderna, più affine all’epica e al senso di meraviglia di David Lean che allo spirito fanciullesco di Peter Jackson.
Pur immergendo la sua storia nella sabbia sconfinata del deserto di Arrakis, che sembra avvolgere e dominare ogni cosa, il regista appare meno interessato questa volta ai temi ecologici e ad approfondire l’ecosistema creato dai Fremen quanto ad esaltare gli elementi eroici del viaggio di Paul Atreides, mostrarne la riluttanza e penetrarne i dubbi.
Stretto fra le mire materne, l’incombere di una profezia che sembra davvero avverarsi e le responsabilità soverchianti del comando, il protagonista pare alla fine abbracciare il destino che fin dall’inizio il padre aveva pensato per lui: “Un grande uomo non cerca di essere un leader, è chiamato a esserlo”.
Eppure questa chiamata suona sempre più angosciosa, mano a mano che le visioni del futuro si fanno più chiare: Paul sembra tradire infine se stesso, non solo trasformandosi in quel profeta, che probabilmente sa di non essere, ma anteponendo la ragion di stato a quella degli affetti, accettando la crudeltà, la morte e il dolore come una conseguenza inevitabile della sua ascesa.
La sua ascesa personale e politica porta con sé un movimento speculare vero l’orrore e la guerra.
Herbert stesso molti anni dopo aver pubblicato i suoi libri ammoniva che “La conclusione della trilogia di Dune è questa: fate attenzione agli eroi. Molto meglio [fare] affidamento sul proprio giudizio e sui propri errori. Dune metteva in discussione questa idea del leader infallibile perché nella mia visione della storia gli errori commessi da un leader (o fatti in nome di un leader) sono amplificati dal numero dei loro seguaci”.
Villeneuve, appassionato lettore dei lavori di Herbert, conosce perfettamente le intenzioni dell’autore e le condivide.
Il viaggio di Paul sembra tipicamente quello dell’eroe, con la caduta improvvisa, l’esilio, la traversata – non metaforica – nel deserto e poi la risalita, mossa dal desiderio di confrontarsi con le ombre della sua storia. Ma quello che l’attende alla fine è il proverbiale lato oscuro lucasiano.
Chi conosce il lavoro di Villeneuve può cogliere i richiami evidenti di questo secondo capitolo di Dune alla tragedia attorno a cui ruota La donna che canta. Anche questa volta il peso della storia e la maledizione del destino pesano sui personaggi e anche questa volta il processo di scoperta della verità è un viaggio doloroso dentro di sé e dentro l’orrore, personale e collettivo.
Villeneuve costruisce un film di infiniti primi piani, spesso giocando ad azzerare la profondità di campo per concentrarsi esclusivamente sui volti.
In un cast sontuoso, la sceneggiatura scritta con Spahits trova il tempo e lo spazio per regalare ad ogni ruolo una pienezza che asseconda la coralità del racconto.
Se infatti il Paul Atreides di Chalament è ancora più centrale e decisivo nell’universo narrativo del film, gli altri personaggi sembrano pianeti capaci di ruotare ciascuno su un’orbita diversa. Naturalmente rispetto alla prima parte è Zendaya a guadagnarsi lo spazio più grande vicino a quello del protagonista: Chani rappresenta l’anima razionale del racconto, che bilancia con il suo scetticismo critico l’irresistibile avverarsi della profezia diffusa delle Bene Gesserit.
Con la solita abilità mimetica, l’irriconoscibile e glabro Austin Butler ha imparato a parlare con lo stesso accento e la stessa cadenza di Stellan Skarsgård. Il suo resta tuttavia un personaggio monocorde, un sociopatico insopportabile, senza alcun fascino, lontano sia dallo Sting scelto da Lynch, sia dal Mick Jagger immaginato da Jodorowsky.
Christopher Walken si ritaglia il ruolo solenne dell’Imperatore silenzioso e si tiene accanto quasi sempre Florence Pugh, che dona a Irulan la sua perspicacia e la sua determinazione.
Hans Zimmer immerge anche la seconda parte di Dune in un mélange di voci, percussioni, strumenti a corda e rumori, con il solito passo tonitruante dei suoi score, eppure Villeneuve nei momenti più drammatici sceglie significativamente il silenzio.
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