Yannick – La rivincita dello spettatore

Yannick – La rivincita dello spettatore **

Un piccolo teatro parigino, tre attori sul palco in una pièce intitolata Le Cocu – Il cornuto, la platea mezza vuota.

Improvvisamente uno degli spettatori si alza e contesta quello che sta vedendo. E’ un metronotte, che ha preso un giorno di ferie per godersi una serata divertente. E’ venuto dalla periferia prendendo il treno per un viaggio di quarantacinque minuti poi a piedi per altri quindici e non sta apprezzando per nulla il lavoro dei tre sul palco.

Chiede di poter parlare al regista-commediografo, ma quella sera non c’è, se la prende quindi con gli attori e infine viene invitato a lasciare la sala, perchè lo spettacolo possa continuare come da copione.

Solo che il giovane Yannick, questo il nome dello spettatore recalcitrante, ci ripensa e torna sui suoi passi, questa volta brandendo un revolver e costringendo gli attori a recitare un testo scritto da lui in quel momento sul computer di un altro spettatore. Una rivincita, che avrà un esito imprevedibile.

Il nuovo film di Dupieux, sempre più prolifico, ma sempre meno a fuoco, sembrerebbe essere un divertissement polemico con più di un bersaglio.

Sotto il suo sguardo finiscono infatti molte cose diverse: innanzitutto il populismo di chi pretende di rompere ogni convenzione in nome di un io collettivo malinteso, poi ovviamente un certo stanco rituale teatrale in cui i ruoli tra palco e platea sono preordinati da quella quarta parete invisibile che li divide. Quindi l’inutilità di certe commedie contemporanee due stanze e cucina, minime già nelle loro ambizioni realiste.

Dupieux ce l’ha anche con la passività del pubblico un po’ anestetizzato e incapace di pretendere di più e con l’arroganza dell’attore che si pone su un piano differente rispetto a quello di chi “riceve” la sua performance.

La rivolta di Yannick assomiglia a quella fantozziana al cineforum aziendale, tuttavia mentre quello era un sottile omaggio cinefilo, nascosto dietro lo smascheramento dell’uso della cultura alta come ennesimo strumento di sottomissione e assieme di banalizzazione, qui il messaggio di Dupieux è meno diretto e paradossalmente meno univoco.

Yannick è un lavoratore che tuttavia pretende che il suo tempo libero non vada sprecato e quando lo spettacolo non gli piace si alza e lo dice “come quando al ristorante si trova un capello nel piatto”.

Yannick è un uomo semplice, che non sembra conoscere altro codice che quello della sua emozione: preso in giro e sbeffeggiato, si vendica costringendo tutti a seguire il suo copione, mediocre come quello messo in scena originariamente.

Quando poi in scena compare una pistola, ecco che le reazioni dei personaggi cambiano radicalmente in nome di una dinamica di potere stravolta dalla paura: quando l’arma passa di mano ecco che la violenza e la volontà di sottomissione passano con questa.

Il conflitto è sempre, in fondo, un conflitto di classe, anche quando coinvolge narratore e spettatore, arte, vita e rappresentazione: quel finale che alterna il successo facile delle nuove scene con l’arrivo delle truppe speciali appare emblematico in questo senso della necessità di reprimere ogni sovversione dell’ordine costituito.

Si leggono in filigrana la brutalità sgrammaticata dei gilets jaunes e la condiscendenza insopportabile delle élites. Dupieux non sembra parteggiare per nessuno, piuttosto impegnato a mostrare quanto sia sfuggente la condizione dei tanti Yannick, incapaci di comprendere il proprio ruolo sociale e velleitari nel tentativo di sovvertirlo.

I temi sono molti e complessi, tuttavia Dupieux li attraversa con la sua solita incosciente e stringata leggerezza in un film che dura appena un’ora. La dimensione surreale qui è più contenuta e non spiega alcune delle svolte più implausibili del film, come la scrittura in pochi minuti del nuovo copione.

Gli ottimi caratteristi Pio Marmaï e Blanche Gardin sono due degli attori sulla scena, ma il protagonista rimane lo stralunato Raphaël Quenard che interpreta  Yannick con ottusa generosità.

Se la metafora politica della Francia macronista è chiara, Dupieux sembra voler anche voler mettere in discussione il patto che ogni volta stringiamo da spettatori. Eppure il suo film rimane episodico, estemporaneo, quasi uno sberleffo situazionista più che una riflessioni vera.

La brevità è contemporaneamente il suo limite e il suo pregio. 

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