L’idea di portare sul grande schermo la storia di Napoleone Bonaparte, il generale corso, asceso negli anni della rivoluzione dall’anonimato militare sino al soglio Imperiale, aveva ossessionato Stanley Kubrick per un decennio, portandolo a studiare minuziosamente la sua storia e a costruire un archivio enorme, in grado di sostenere il suo incontro con una delle figure più controverse e significative della storia europea.
Il film non si fece mai, la Warner non ebbe il coraggio di sfidare la maledizione che si sussurra accompagni gli adattamenti della storia di Bonaparte e Kubrick sfruttò parte delle ricerche per il suo Barry Lyndon: di quella sfida titanica ci resta un magnifico libro che testimonia la storia di uno dei più celebri film mancati e una sceneggiatura di 149 pagine, ereditata da Steven Spielberg.
Ridley Scott si è invece avvicinato al suo Napoleon attraverso la sceneggiatura di David Scarpa, che già aveva scritto per lui Tutti i soldi del mondo e il prossimo sequel del Gladiatore.
Il risultato tuttavia è simile a quasi tutta l’ultima produzione del regista di Alien e I Duellanti: un film senz’anima, confuso negli intenti, algido emotivamente, storicamente revisionista, che funziona solo nelle grandi scene di battaglia.
L’ottantacinquenne Scott, nella sua ansia bulimica, sembra ingurgitare voracemente un progetto dopo l’altro, come se si trattasse di un anonimo regista dello studio system di cent’anni fa, senza mai dare ai suoi lavori quel senso di urgenza e di necessità, necessarie ad un artista che abbia scelto il cinema come mezzo espressivo d’elezione.
Col nuovo secolo ha diretto personalmente diciannove film in ventitré anni, lavorando con tutte le major ad un ritmo talmente frenetico, da non lasciare spazio per molte altre riflessioni.
Questo suo film su Napoleone avrebbe dovuto intitolarsi Kitbag, prendendo spunto da un famoso aforisma, attribuito al suo protagonista: “Ogni soldato francese porta nella sua giberna il bastone di maresciallo di Francia”.
Alla fine ha invece prevalso il più semplice Napoleon, a cui probabilmente sarebbe stato meglio aggiungere & Josephine, perché l’arco narrativo e psicologico costruito da Scott e Scarpa poggia interamente sul rapporto sentimentale del condottiero con la moglie Giuseppina, infedele e incapace di dargli un erede, ma al centro di ogni suo pensiero, in battaglia come nella conquista del potere.
Il film alterna infatti la ricostruzione di alcuni momenti storici e delle campagne militari, dalla ghigliottina di Maria Antonietta all’assedio di Tolona, da Austerlitz a Waterloo, al rapporto travagliato tra il giovane generale e l’aristocratica travolta dalla Rivoluzione, Giuseppina di Beauharnais, sposata nel 1796 e rimasta a fianco dell’Imperatore sino al 1809.
Tra i due, Scott immagina un rapporto fatto di gelosie e tradimenti, avvicinamenti repentini e distacchi forzati, dipendenze emotive e infelicità diffusa.
Il film è contrappuntato dalle lettere che Napoleone scrive alla moglie dai campi di battaglia, chiudendo l’ambizione e il talento visionario del protagonista in una dimensione tutta sentimentale e psicologica. Con la maturità sentimentale di un quindicenne perennemente preda di una tempesta ormonale, Bonaparte è ridotto ad una pantomima grottesca che finisce per relativizzare anche la figura di Giuseppina, oggetto del suo desiderio, anche lei inquadrata nel solito stereotipo che alterna una visione angelicata e idealizzata della donna ad un’altra triviale e infedele.
Questo Napoleon è lavoro che non sembra riuscire a soddisfare nessuno, schiacciato sul privato, assecondando una delle derive più perniciose del cinema americano contemporaneo, eppure capace di ritrovare una certa magnifica ferocia quando Scott decide invece di mostrare la grandiosità primitiva delle battaglie, il fango, la polvere da sparo, lo squasso dei cannoni, le baionette insanguinate, la brutalità dei cavalli al galoppo.
E’ in questa dimensione di uomini contro che il film trova spesso momenti di grande cinema fin dall’assalto di Tolone, ma non tanto per esaltare l’intelligenza strategica del protagonista, quanto per pura architettura visiva, nella quale Scott si trova perfettamente a suo agio, sin dai tempi de I duellanti.
Da questo punto di vista, la battaglia di Austerlitz con i soldati russi e austriaci che precipitano nelle acque ghiacciate o quella di Waterloo con la fanteria inglese disposta in quadrati difensivi agli ordini del Duca di Wellington, sono sprazzi sontuosi del film che avremmo voluto vedere.
Eppure anche in queste scene Scott finisce per andare fuori strada: Napoleone che cannoneggia le piramidi è talmente assurda da lasciare basiti e non per l’ossequio acritico ad una fedeltà storica impossibile da replicare sullo schermo, ma proprio per la sciatteria e l’inverosimiglianza che rompe il patto spettatoriale.
Dal regista de Il Gladiatore sarebbe stato sciocco pretendere adesione storica, perché in fondo tutto il suo cinema si è mosso in dimensioni anacronistiche, spesso in futuri prossimi venturi, anche quando palesemente ancorato a codici narrativi del passato. Napoleon non fa eccezione, usando una punteggiatura visiva ipermoderna, pur immersa nella stessa illuminazione fioca del tempo, per continuare a produrre le stesse immagini di sempre, strizzando anche l’occhio allo spettatore con una Josephine che appare all’inizio con la stessa acconciatura punk di Darryl Hannah in Blade Runner.

Aperto da una didascalia sulla Rivoluzione Francese che sembra scritta dal Metternich e chiuso da un’altra didascalia che di tutta l’epopea bonapartista ricorda solo i morti delle sue battaglie, come se si trattasse di un bieco terrorista assetato di sangue, non si comprende cosa abbia affascinato Scott per spingerlo all’impresa; questa volta, come in gran parte degli ultimi progetti, a dir la verità.
Il ritratto di Bonaparte è così riduttivo, così minuto e parziale, che solo un inglese avrebbe potuto vergarlo: il film non ha neppure la forza del classico, pretendendo invece di mostrare una modernità di intenti e di approccio, che cozza tuttavia con la messa in scena iper-tradizionale e con una scansione narrativa da feuilleton.
Andrebbe poi completamente ripensata la formula del biopic tradizionale in cui si racconta la storia di una vita “from the cradle to the grave“, lasciandola semmai alla serialità, perchè sia pure con due ore e mezza a disposizione, Scott, come molti prima di lui, è costretto a sintesi frettolose, superficiali, che oscurano del tutto il suo rapporto con i marescialli e i generali, il suo ruolo politico e riformatore, la stessa campagna d’Italia.
A complicare le scelte di Scott è anche l’interpretazione di Joaquin Phoenix, che ha scelto di raffigurare il generale corso con un’unica espressione monocorde tra l’acciglio e il disgusto, per tutto il film, cercando una fragilità psicologica che gli assalti in battaglia cercano di compensare.
In definitiva questo Napoleon è un film che non sembra avere ragione alcuna, un ritrattino a mezza strada tra il sussidiario e il rotocalco rosa, diminutivo in quasi ogni aspetto, con alcuni lampi a lasciarci l’amaro in bocca per quello che avrebbe potuto essere e invece non è stato.
Troppo poco.

