Il film d’esordio della trentaseienne losangelina Chloe Domont con un buon curriculum nella serialità – Billions, Ballers, Clarice – è un thriller ambientato nel mondo della finanza, che utilizza una sensibilità di genere contemporanea, in una meccanismo drammatico che sembra uscito da un film degli anni ’90 o da un romanzo di Grisham.
L’incipit non potrebbe essere più fuorviante: una giovane coppia ospite ad un matrimonio, di apparta nei bagni incapace di resistere all’attrazione: le cose non vanno come immaginato, ma lui alla fine le porge un anello e le chiede di sposarlo.
I due sono Luke ed Emily: entrambi lavorano in un hedge fund newyorkese. Lo scopriremo solo la mattina dopo.
Secondo le strettissime policy americane che impediscono qualsiasi relazione tra colleghi di lavoro, i due fingono indifferenza.
Quando uno dei manager viene brutalmente licenziato, Emily sente per caso una conversazione che sembrerebbe indicare Luke come il più probabile sostituto.
I due festeggiano la sera nel loro piccolo appartamento, ma nel cuore della notte, Emily viene convocata dal boss Campbell che le affida il posto vacante.
Questo porta ad una progressiva disgregazione della relazione con Luke, che dopo aver bruciato 25 milioni di dollari del fondo con un suggerimento sbagliato girato a Emily, scivola in una spirale di recriminazione, invidia e umiliazione che culmina il giorno della festa a sorpresa organizzata dai genitori di Emily per il loro fidanzamento.
Il film della Domont è un thriller quasi senza sangue e senza pistole, in cui l’ansia e la suspense crescono nel contesto di quell’acquario di squali che è il fondo d’investimento in cui entrambi i protagonisti lavorano.
Le altre location – l’appartamento della coppia, il bar dove si rilassano a fine giornata, i ristoranti alla moda a cui Emily viene invitata, lo strip club dove festeggia un suo clamoroso successo professionale – non sono alto che appendici del medesimo contesto lavorativo che invade ogni momento della loro vita.
Un contesto che sembra costruito con regole vecchie e immutabili: l’elemento femminile è perturbante, la sua promozione suscita retro-pensieri e ilarità, accuse velate e impotenza. Più retrogrado e tossico di così è difficile immaginarlo.
La regia della Domont è priva di originalità, appiattita sulla consuetudine seriale, le interpretazioni dei due protagonisti mi sono parse altrettanto chiuse negli stereotipi di genere con una differenza sostanziale: Phoebe Dynevor ha almeno un personaggio più complesso su cui lavorare. Ehrenreich invece è completamente fuori ruolo: non è mai credibile come genio incompreso della finanza, sembra aver scritto loser sulla fronte per tutto il tempo. Nessuno gli affiderebbe mai neppure dieci dollari da investire. Nel privato il suo personaggio non è meno tagliato con l’accetta: prima virile e brillante quando pensa di aver ottenuto un’insperata promozione, poi impotente e malmostoso di fronte ai successo della fidanzata, quindi folle e abusivo nella sua deriva. La specialità dell’attore scoperto da Coppola sono i ruoli tormentati e qui il tormento poi arriva, ma sarebbe servito un attore diverso, per consentire di rendere comprensibile il cambiamento nel suo personaggio, che invece si capisce benissimo che fine farà e per cui non si prova mai alcun sentimento.
Se il film della Domont sembra puntare il dito sulle questioni di genere, anche sotto un profilo elementare e psicologico, nulla dice su tutto il resto: i licenziamenti brutali, i meccanismi finanziari opachi, le mosse spregiudicate di acquisto e vendita. Le sta bene tutto, purchè siano rispettati i diritti della protagonista a scalare i ranghi. Woman empowerment. Il resto non conta.
Trave e pagliuzza è scritto nel vangelo. Siamo sempre lì.
Fair Play è un film imbarazzante e furbo, progressista solo un tanto al chilo e solo dove sembra più innocuo e consolatorio esserlo. Per il resto non fa che perpetuare la solita narrazione di Wall Street, che da Oliver Stone in avanti non ha fatto altro che celebrare – all’inizio involontariamente, poi con sempre meno ingenuità – l’avidità alla Gordon Gekko.
Fasullo.

