L’etichetta di horror più interessante e spaventoso dell’autunno gliel’hanno appiccicata due pesi massimi con Stephen King e Guillermo Del Toro, tuttavia l’opera seconda dello sceneggiatore Brian Duffield (Jane Got a Gun, Underwater, Love and Monsters) è in realtà un film che non crede mai a quello che mostra, che inganna ripetutamente il suo pubblico, utilizzando il cinema di genere come una cortina fumogena che pian piano si dirada lasciando intravvedere le cose importanti e pensose che Nessuno ti salverà vuole davvero dirci.
Già così il film è sufficientemente sgradevole e manipolatorio, ma Duffield decide di farne uno strumento autoassolutorio e consolatorio, negando in radice il messaggio sovversivo e politico che il cinema horror e in particolare quello delle home invasion e degli incontri ravvicinati ha quasi sempre avuto.
La protagonista è Brynn, una ventenne che vive ancora nella grande casa dei genitori, isolata dalle altre, in un piccolo borgo di provincia.
E’ completamente sola. Scopriremo poi che la madre è deceduta da poco, così come la sua migliore amica, Maude, a cui continua a scrivere lettere tutti i giorni. In paese nessuno la saluta o le rivolge la parola: sembra un fantasma invisibile quando si affretta nelle sue piccole commissioni quotidiane.
La notte si sveglia di soprassalto perchè qualcuno o qualcosa sembra essere entrato in casa. Si tratta di un alieno, con sembianze umanoidi, secondo la più classica iconografia di genere. E’ aggressivo, ma Brynn dopo il terrore iniziale e il tentativo frustrato di nascondersi, quasi senza accorgersene riesce a piantargli un paletto in testa.
L’indomani si reca in paese per denunciare l’accaduto, ma la moglie del capo della polizia le sputa in faccia. Sale quindi su un autobus per scappare lontano, ma si accorge che diversi passeggeri sono come posseduti e si avventano su di lei.
Una nuova fuga la riporta sostanzialmente a casa sua dove attende la notte per quella che sarà una resa dei conti con le creature extraterrestri.
Il film di Duffield, avvolto interamente in un silenzio spettrale che esalta rumori, crepitii, spasmi e urla di terrore, funziona egregiamente solo nella prima parte, quando il meccanismo di genere è libero di costruire un crescendo drammatico che si nutre di mistero e di una certa capacità di creare suspense con i soliti ingredienti minimi: un personaggio impaurito, lo spazio casalingo, telefoni e frigoriferi, televisori che si accendono improvvisamente, basement in cui non si può mai nascondere.
Quanto tuttavia il gioco diventa esplicito e la dimensione horror e fantascientifica smette di essere usata come primario strumento drammatico, il film mostra tutti i suoi limiti e la sua inaccettabile etica.
Pian piano infatti ci accorgiamo che Duffield non ha nessun interesse nel meccanismo di genere, ma lo sfrutta per poi raccontarsi qualcosa di diverso, ovvero il senso di colpa lancinante di Brynn, che vive isolata da tutti per un motivo specifico, che non ha nulla a che vedere con l’invasione aliena, ma che turba il suo subconscio e rende insopportabili le sue giornate.
Duffield però introduce questi elementi personali con una protervia degna di miglior causa e ne fa improvvisamente il fulcro della sua narrazione, trasformando così quella che appariva come una tragedia collettiva nella soluzione consolatoria di un trauma individuale.

L’orrore che nel capolavoro di Siegel degli anni ’50 assumeva una dimensione politica e collettiva, anche ambigua e irrisolta, qui fa il percorso inverso richiudendosi perfettamente sulle necessità di Brynn, sul suo egoismo che cancella ogni responsabilità.
Così l’invasione e la possessione aliena diventano un modo per Brynn di disegnare una comunità senza memoria e senza storia, schiacciata su un presente fasullo e felice, in cui possa essere di nuovo accolta a pieno titolo.
Peraltro molte scelte radicali del film sembrano completamente fini a se stesse: che cosa aggiungono infatti la mancanza totale di dialoghi o l’ambiguità sul tempo in cui la storia è ambientata? Nulla.
Il film di Duffield è così inaccettabile non solo perchè dimostra di non credere mai per un solo momento nella forza del cinema e nel suo linguaggio e perchè gioca con il suo pubblico senza alcun rispetto per il patto spettatoriale, ma anche perchè quello che vuole raccontarci è profondamente, irrimediabilmente sbagliato.
Quelle scene finali di un mondo fasullo, immerso in una luce calda e hollywoodiana, in cui tutto è perdonato e cancellato, senza mai aver fatto i conti con le proprie responsabilità è un’oscenità pornografica, che non inquieta nessuno e lascia solo il retrogusto amaro di una presa in giro.
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