Il nuovo film dell’inglese Gareth Edwards (Monsters, Godzilla, Rogue One) è ancora una volta un film di guerra ambientato in un prossimo futuro in cui umani, robot e simbiant, creati dall’intelligenza artificiale, sono costretti a combattere per la propria sopravvivenza.
Dopo che un’atomica ha distrutto per errore la downtown di Los Angeles, l’occidente ha messo al bando l’AI e il suo misterioso creatore, Nirmata.
Rifugiatisi nella Nuova Asia questi ultimi cercano di sopravvivere agli attacchi americani che si muovono con un’enorme e invincibile astronave chiamata Nomad: una macchina di terrore e morte.
L’agente delle forze speciali Joshua è in missione sotto copertura in Nuova Asia per scoprire l’identità e localizzare Nirmata. Ma qui conosce e si innamora di Maya, una scienziata che vive con Harun e altri simbiant che guidano la resistenza anti-americana.
Maya è incinta della loro bambina quando un attacco di Nomad distrugge la loro casa, rivelando la missione di Joshua.
Cinque anni dopo nel 2065 il Colonnello Howell contatta nuovamente Joshua per rispedirlo in missione in Nuova Asia alla ricerca di Alpha O, un’arma definitiva creata da Nirmata per sconfiggere l’occidente.
Nelle immagini che mostra al soldato si intravvede una donna che assomiglia a Maya. L’idea di ritrovare la moglie, spinge Joshua ad accettare la missione.
L’assalto al compound segreto dei simbiant rivela tuttavia una verità difficile da sopportare. Alpha O è un androide con le sembianze di una bambina di sei anni.
Joshua non riesce a terminarla e assieme a lei si mette in viaggio per sfuggire alle truppe americane e alla polizia locale che vuole recuperare la preziosa creazione di Nirmata. Ben presto Joshua comprende che quella che Alpha O chiama madre non è altro che Maya. L’obiettivo dell’agente diventa così quello di ritrovare la donna perduta.
Il film scritto da Gareth Edwards con Chris Weisz (About a Boy, Cenerentola, Rogue One), è uno strano oggetto cinematografico.
Pur ambientato in un futuro distopico segnato dall’incapacità degli occidentali di convivere con altre specie e altre culture, The Creator assomiglia in realtà al più classico dei film sulla guerra del Vietnam, prendendo a prestito personaggi e situazioni da Apocalypse Now, Platoon, Vittime di guerra.
L’idea che il protagonista sia un americano convinto pian piano delle ragioni del “nemico” lo avvicina a quel cinema della controcultura che a partire dagli anni ’70 ha contaminato e stravolto i generi classici, secondo una sensibilità del tutto nuova.
In questo senso si avvicina ad Avatar, con meno enfasi sulla dimensione ecologista, ma con lo stesso spirito tollerante e anti-imperialista.
L’accento sull’Intelligenza Artificiale in un film scritto nel 2019, mi pare che contribuisca solo a confondere le idee. Allora i riflessi concreti della tecnologia nella nostra vita erano ancora piuttosto lontani e Edwards mostra robot e simbiant secondo una logica piuttosto old style, non come minacce al nostro ordine sociale ed economico, non come armi da sfruttare in una guerra tra potenze, ma come creature minacciate di estinzione da una fatwa indiscutibile, che cercano solo di sopravvivere allo sterminio.
Il messaggio di The Creator è un invito a deporre le armi, a costruire ponti tra mondi diversi a smettere di “esportare democrazia” e di aver paura di quello che consideriamo diverso da noi.
Non c’è nessuna profonda riflessione sulle implicazioni attuali dell’Intelligenza Artificiale, che qui viene utilizzata come una metafora per indicare semplicemente ogni sorta di minoranza negata.
La sceneggiatura pur non priva di evidenti incongruenze e di scorciatoie un po’ furbe, funziona egregiamente solo grazie all’ingaggio emotivo del rapporto tra un attore empatico come John David Washington e la simbiant bambina interpretata da Madeleine Yuna Voyles.
L’idea che per Joshua il viaggio cominci come il tentativo di ritrovare la donna amata e perduta e pian piano diventi anche qualcosa di diverso, funziona secondo le più classiche coordinate revisioniste, che spingono il protagonista a sposare un punto di vista diverso da quello della propria cultura d’origine.
Peccato che il film, nonostante sia stato girato in 80 diverse location reali in Thailandia, Vietnam, Cambogia, Nepal, Giappone, Indonesia, oltre che nei Pinewood Studios in Inghilterra e negli Stati Uniti, invece che di fronte ad un green screen o ad uno StageCraft, non riesca mai a costruire un proprio immaginario, ma si limiti a sfruttare quello dei suoi modelli dichiarati, da Paper Moon a Blade Runner, dai film di Reggio all’epopea di Coppola, ma anche quello dei film di Blomkamp, District 9 ed Elysium.
Il fatto che il talentuoso direttore della fotografia Greig Fraser abbia dovuto abbandonare il set dopo la pre-produzione, per volare su quello di Dune 2 limitandosi a dare indicazioni da remoto al giovane israeliano Oren Soffer, forse è solo una parte del problema.
Il film, girato con una piccolissima Sony FX3 come un guerilla movie, ma in un formato extra wide come il 2,76:1, non riesce mai ad essere veramente epico e neppure realmente concitato e personale.
Si muove su un registro visivo per lo più tradizionale, mescolando gli elementi fantascientifici a quelli dell’avventura di guerra in modo piuttosto semplice.
The Creator è intrattenimento adulto, forse un po’ troppo derivativo, ma con un bel messaggio anti-militarista e inclusivo, che fa dimenticare le troppe falle di scrittura: peccato che questa volta, come accaduto in Rogue One, non ci sia stato un Tony Gilroy a sistemarne i difetti più evidenti.

