L’alba dei tempi.
Le bambine giocano con i vecchi bambolotti come le scimmie con le ossa di 2001, quando l’arrivo del monolite-Barbie cambia radicalmente le cose: si può giocare con la propria femminilità e ad essere donne indipendenti ed emancipate e non solo madri amorevoli del focolare domestico degli anni ’50.
Ci ritroviamo quindi a Barbieland, dove Barbie-stereotipo vive le sue giornate eternamente uguali e felici: è un mondo in cui le Barbie sono presidenti, premi nobel, giudici della corte suprema, scrittrici e tutto ruota attorno a loro. I diversi Ken – uomini oggetto che lucidano i muscoli e sfoggiano i pettorali – possono al massimo litigarsi le simpatie dell’una o dell’altra sullo spiaggia. Ma quando cala il sole, le Barbie sono sempre impegnate in una serata tra donne che frustra ogni desiderio sentimentale degli ometti.
Non è un caso che il matriarcato di questa Barbieland sia rigorosamente privo di bambini.
Solo che nel bel mezzo di questo idillio di nulla cosmico, un pensiero di morte attraversa la mente di Barbie-stereotipo, che la mattina dopo si ritrova i piedi piatti e la cellulite, segno che qualcosa non va.
E’ Barbie-stramba a spiegarle che probabilmente è la bambina che giocava con lei nel mondo reale ad influire sul suo umore: occorre ricucire lo strappo tra i due mondi.
Barbie-stereotipo parte così per una nuova avventura verso il mondo reale con il suo Ken. Giunti a Los Angeles, i due si accorgono però che il mondo è molto diverso da Barbieland: il consiglio d’amministrazione della Mattel è composto di soli uomini, il machismo di una palestra apre gli occhi a Ken e mentre Barbie cerca di trovare la bambina responsabile delle sue stranezze, Ken ritorna a Barbieland con libri sul patriarcato e sui cavalli, trasformando radicalmente quel mondo e facendo il lavaggio del cervello alle altre Barbie, costringendole in una posizione subalterna e sottomessa ai desideri dei Ken.
Il film diretto da Greta Gerwig e scritto con il marito Noah Baumbach cerca di trarre dalla bambola creata da Ruth Handler nel 1959, significati e consapevolezza contemporanee, facendone un’eroina post-femminista, imbevuta del vocabolario #metoo, tra patriarcato, auto-affermazione e consenso.
Un trionfo di women empowerment, in cui ogni dimensione romantica è revocata e anche Ken deve trovarsi qualcosa da fare perché certo non può stare ad aspettare una Barbie che non lo ama.
Il film è un ibrido che mescola fervorini da suffragette a levità da commedia demenziale, momenti decisamente musical, con balletti e canzoni, ad altri che vorrebbero insegnarci come si sta al mondo nella California del XXI secolo, tutto questo senza riuscire neppure per un attimo a strappare un sorriso, dopo il gustoso prologo kubrickiano, ed anzi mostrando di prendersi tremendamente sul serio.
Solo che non c’è mai sottotesto, mai sfumatura, mai allegoria: ogni parola pesa come un mattone, ogni frase sembra lo slogan di un volantino militante e Gerwig mostra di non aver alcun vero talento pop nell’immaginare il mondo di plastica della sua eroina.
Pur dirigendo un film su un giocattolo di sessant’anni fa sembra animata dal sacro fuoco di chi vuole convertirci ad una nuova religione. E come accade sempre più spesso al di là dell’oceano, il tentativo è quello di rettificare il passato, modificare quelli che oggi ci sembrano errori, cambiare carattere a personaggi che appaiono lontani dalla nostra sensibilità, con un meccanismo di revisione storica piuttosto disonesto. E così la bambola che per decenni è stata il simbolo un po’ sessista di un’immaginario femminile impossibile da raggiungere, diventa ora un esempio di retorica inclusiva e accettazione di ogni diversità. La Mattel lo ha cominciato a fare con le sue Barbie da diversi anni e ora arriva la versione cinematografica a celebrare il cambiamento.
A chi è rivolto questo Barbie? Qual è il suo pubblico d’elezione? Forse sono gli adolescenti americani che hanno appena smesso di giocare con le bambole e si ritrovano una Corte Suprema che scardina un pezzo alla volta ogni conquista sociale e civile dell’ultimo mezzo secolo?
Il personaggio interpretato da America Ferrera sembra confermare questo obiettivo, con quella strizzata d’occhio alle madri nostalgiche, capaci di insegnare alle figlie più consapevoli e ribelli il valore ancora attuale e liberatorio di una bambola assurta invece a simbolo di un capitalismo manipolatorio e tradizionalista.
Peccato che la rabbia polemica della giovane Sasha si perda subito e il suo personaggio finisca presto sullo sfondo, così come altri personaggi che avrebbero potuto suggerire percorsi più complessi e contraddittori (ad esempio l’Allan di Michael Cera, probabilmente omosessuale, la Midge incinta per immacolata concezione, lo stesso CEO Will Ferrell villain per mancanza di alternative).
“Humans only have one ending. Ideas live forever”: sono forse queste parole, che chiudono il film, quelle da tenere a mente? Troppo poco e troppo tardi, verrebbe da dire.
Anche perché il ribaltamento umoristico dei ruoli di genere è davvero l’unica idea di Gerwig e Baumbach, in un film di modestia imbarazzante, in cui risplende solamente il talento e la bellezza impareggiabile di Margot Robbie, senza la quale non vi sarebbe un solo motivo per comprare un biglietto per questo Barbie.
Ryan Gosling prova a immettere un po’ di ironia in un personaggio che vive di contraddizioni e di delusioni, ma poi l’universo maschile del film è così monocorde e idiota, che anche lui finisce per esserne inghiottito completamente.
Barbie è poi un film in cui il peso della committenza si fa sentire con decisione: è tutta pubblicità per la Mattel, direbbe qualche cinico.

Gerwig dal canto suo sembra impegnata in un’opera di educazione di massa alle parole d’ordine del neo-femminismo, con un paternalismo e una superficialità – queste sì – davvero ingombranti.
Solo che i film, come ricordava Fellini, dovrebbero mostrare e non dimostrare.
Il suo fa l’esatto opposto e lo fa anche con modalità talmente elementari da nascondere il vuoto che lo anima.

