Presentato a Cannes in anteprima lo scorso maggio, il nuovo Almodovar è stato accolto con freddezza dalla critica internazionale ed è tornato a casa, ancora una volta, a mani vuote.
Secondo Paolo Mereghetti del Corriere, La pelle che abito è:
Una storia d’amore ma senza vera passione. Un film horror raccontato senza orrori. Una vendetta mostruosa senza mostruosità… La pelle che abito, il nuovo film di Almodóvar presentato a maggio a Cannes, è un oggetto che non sai bene da che parte prendere, tanto sembra negare ogni possibile interpretazione: come film d’autore ti sembra lontanissimo dal calore e dalla passione delle sue opere precedenti (anche se non è difficile ritrovare i suoi temi: l’amore come possesso, la confusione tra i sessi, l’occhio – umano ed elettronico – come strumento di comunicazione, il passato che ritorna). E come film di genere è troppo controllato ed elegante per aver quella capacità di coinvolgimento che richiederebbe.
Il trapianto tentato da Almodovar non è riuscito: ibridare i suoi melò caldi e surreali con la freddezza dell’horror sociale ha finito solo per raffreddare il suo stile.
Sembra quasi che il regista non abbia molto interesse per il destino dei suoi personaggi, questa volta poco incisivi e incapaci di trascinare il pubblico all’identificazione.
Ecco il nodo irrisolto del film. In passato Almodóvar aveva popolato i suoi film di personaggi ai limiti del folclore, colorati e sorprendenti, che però rispondevano a una logica precisa: distruggevano le convenzioni «borghesi» (o presunte tali) dello spettatore per trascinarlo in un mondo tutto da scoprire, dove le regole del buon gusto e della compostezza svanivano come per incanto. Anche qui Robert Ledgard agisce secondo una logica non certo «convenzionale» – vuole realizzare la più feroce delle vendette – ma il regista non sta mai dalla sua parte o da quelle delle vittime (e di conseguenza nemmeno lo spettatore può farlo): la macchina da presa si limita a riprendere tutto senza farsi mai coinvolgere, fredda e razionale. Come l’occhio della telecamera che spia Vera tenuta prigioniera e appiattisce nel suo bianco e nero pixellato le forme morbide e delicate della ragazza.
…l’aggiornamento post moderno del melò hollywoodiano, soprattutto dopo Tutto su mia madre e Parla con lei, è una strada che non si può ripetere all’infinito, ma quella imboccata con La pelle che abito non sembra portare troppo lontano. Per il futuro sarà meglio scegliere altri percorsi.

