Questa mattina, dopo sei anni, è giunta alla conclusione la serie simbolo di questo primo decennio del nuovo secolo.
Lost è finito, dopo 121 puntate, così com’era cominciato: il particolare dell’occhio di Jack, disteso in un campo di bamboo, lo sguardo rivolto verso il cielo, il cane Vincent a fianco.
Chi cercava risposte precise, chi si è arrovellato in questi anni, cercando di dare un senso a tutto sarà rimasto deluso.
Lost però è altro: forse solo un meraviglioso pretesto per parlare della vita dei suoi protagonisti.
Jack, Kate, Sawyer, Hugo, Desmond, Lock, Ben, Sayid, Penny, Widmore, Jacob, Alpert… più di tutti i misteri e le spiegazioni, quello che ha avuto un senso, in queste ultime sei stagioni, sono le loro storie, i loro dolori, le loro avventure.
L’isola, la Dharma, Man in Black, i numeri fortunati sono stati strumenti di un racconto fantastico e umanissimo, che affonda le sue radici nella dualità della vita, nella meravigliosa avventura di ogni esistenza.
Come ogni grande racconto, anche Lost è un’odissea, che si confronta inevitabilmente col mito di Ulisse: il viaggio è quello che conta, con le sue derive e i suoi approdi, le sue tentazioni e le sue fughe, i suoi sogni e i suoi bruschi risvegli.
Itaca rimane lì ad attendere gli eroi: ma non è che un pretesto per continuare a navigare il mare burrascoso della vita.

