Them: Scare. A Los Angeles la paura ha i capelli rossi

Them: Scare **

La paura è controllo. Edmund Gaines lo sente dire in televisione e probabilmente pensa che quelle parole, attribuite a Charles Manson, siano indirizzate a lui. Finora Edmund, cameriere in un pizza shop e animatore per bambini, è stato regolarmente scartato ai provini. Il prossimo tentativo potrebbe essere quello buono. Edmund infatti ha una grande aspirazione: fare l’attore. Chi meglio di lui sarebbe in grado, con la massima verosimiglianza, di impersonare un serial killer?

Nel primo capitolo di Them, serie antologica, creata da Little Marvin e prodotta da Lena Waithe, una famiglia nera sperimentava l’orrore del vicinato. Nel secondo, una poliziotta è chiamata a risolvere un omicidio dai dettagli raccapriccianti. A partire dalla declinazione del titolo (The Scare), si capisce quanto la nuova stagione si adoperi per elevare la paura, un’emozione primaria dalle forti connotazioni biologiche e istintive, a oscuro baricentro di ogni riflessione sul razzismo.

La percezione individuale e collettiva degli afroamericani, in una società politicamente ed economicamente controllata dai bianchi, comporta uno stato permanente di allerta. In Them la paura si trasforma in personaggio. Di più, è trasfigurata in feticcio.

Nel capitolo del 2021 la protagonista, Livia Lucky Emory, era interpretata da Deborah Ayorinde. In The Scare troviamo la stessa attrice, stavolta nel ruolo di Dawn Reeve, unica detective nera del Los Angeles Police Department (LAPD). Non siamo più negli anni Cinquanta bensì nel 1991, per la precisione nei giorni del brutale pestaggio ai danni del tassista Rodney King. L’assoluzione degli agenti coinvolti avrebbe dato inizio ai Los Angeles Riots. Le rivolte, scoppiate nell’aprile dell’anno successivo, furono violentissime.

Quando la detective Dawn arriva sul luogo delitto capisce che qualcosa non va. Il termostato è posizionato a 32 gradi. Le pareti sono coperte di muffa. L’orologio appeso al muro è fermo alle ore 3 e 17. Davanti al letto qualcuno ha impilato televisori a formare una specie di barriera. In una stanza sono ammucchiati pannolini sporchi e giocattoli rotti. In corridoio due file di detersivi indicano il punto finale del percorso. Sotto il lavello un corpo torturato attende la polizia. La gamba destra è rotta e piegata all’indietro. Il collo risulta spezzato, la testa girata. La bocca è spalancata in modo innaturale, come se negli ultimi istanti di vita la signora Mott abbia visto il diavolo in persona. Una signora conosciuta per accogliere in casa minori in difficoltà muore così, nel modo più atroce.

Jeremy Bobb (The Outsider, The Knick) interpreta il ruolo del bastardo di turno. Il partner di lavoro di Dawn, il detective bianco Ronald McKinney, è il classico poliziotto dal grilletto facile, grezzo e senza cervello, quello che per sfuggire all’accusa di razzismo confessa (inventa?) di aver avuto una fidanzata nera. “Vuoi dimostrare che non ti hanno presa solo per i diritti delle minoranze”, dice a Dawn, di cui detesta la tendenza a cercare la verità. Anche qui, nulla di nuovo sotto il sole.

La signora Mott era nera e neri sono gli unici testimoni, una bambina e un adolescente di nome Malcolm, entrambi visibilmente segnati dall’accaduto. Secondo McKinney, conosciuto nel dipartimento per i suoi modi spicci, il colpevole è Malcolm. La tipica equivalenza razzista è posta con la massima naturalezza. Afroamericano equivale a criminale. Tuttavia, il sangue in ebollizione dei discendenti degli schiavi non c’entra. Quando Dawn si inoltra nella giungla suburbana delle case popolari per bloccare un pusher siamo rapiti dalla bruttezza del posto. Il problema è la povertà.

La parte di racconto focalizzata sulle cattive abitudini del bad lieutenant è uno dei momenti migliori della serie. È un peccato che gli autori abbiano solo accennato al tema del gruppo segreto, il club esclusivo di giustizieri della notte cui McKinney appartiene. Chi sono questi poliziotti violenti e corrotti? Una cupola massonica? Una succursale di una più vasta cospirazione? Una rete di simpatizzanti neonazisti? La detective Reeve segue McKinney fino a una villetta utilizzata per strani summit notturni. Quando un gruppo di uomini bianchi la circonda si avverte, letteralmente, la paura.

Inaspettatamente, McKinney è estromesso dal caso. Il capo affida l’indagine a Dawn, che chiede al giovane collega Joaquin Diaz di affiancarla. Riconoscimento del talento investigativo di Dawn o trappola tesa dal dipartimento ai suoi danni? La polizia di L.A., già stressata dalle prodezze del presunto Southside Slayer (fatto vero, peccato che l’ipotetico serial killer si rivelerà inesistente), è sull’orlo di una crisi di nervi. I morti ammazzati si susseguono. Curtis Maynard, uno spacciatore, è trucidato sotto gli occhi del figlio neonato. Due giovani sorelle di origini coreane condividono una sorte atroce. I corpi delle vittime presentano le medesime caratteristiche, tanto da apparire agli occhi di Dawn Reeve le testimonianze di un rituale macabro. Una traccia da seguire, forse, c’è. Prima di morire tutti hanno visto un uomo dai capelli rossi aggirarsi nei pressi di casa.

Athena, la madre della detective, è interpretata da una leggenda del genere blaxploitation. Pam Grier è un nome che i cinefili associano soprattutto al personaggio di Jackie Brown dell’omonimo film di Quentin Tarantino. Athena e Kel (il figlio di Dawn appassionato di musica) diventeranno i prossimi obiettivi dell’assassino.

La serie manipola cliché con scarsa originalità. Una scatola contenente prove scottanti, quindi un malessere che svela una patologia ereditaria… Dal quarto episodio in avanti la detective, oltre a dover condurre un’indagine interamente sua, è costretta a fare i conti con un passato inaspettato. La verità sulle sue origini viene a galla. Il quadretto familiare si sgretola. Sul piano narrativo, la confusione aumenta.

Parallelamente a questa linea narrativa ne scorre un’altra. Il sentore che le storie di Edmund e Dawn debbano convergere accompagna lo spettatore fin dall’inizio. Finché le due vicende procedono separate, nei rispettivi binari temporali, la serie, almeno in parte, convince. Contrariamente alle regole della suspense, l’interesse scema proprio nel finale (il duello conclusivo è ridicolo). Lo svelamento delle due identità, intrecciate e al contempo recise dal destino, esaurisce il climax. Il resto è horror degli anni Novanta rimasticato dallo showrunner Little Marvin, fan dichiarato del genere. Ne scaturisce un manierismo poco seducente.

Il secondo protagonista di Them: The Scare è appunto Edmund Gaines, interpretato dall’attore e cantautore Luke James (tre nomination ai Grammy Awards), molto bravo nel rappresentare la discesa all’inferno di un ragazzo problematico. Edmund non riesce a controllare le proprie emozioni. Per un amico dei bambini che si traveste da maialino, troppa irritazione non va bene.

Edmund individua la sua via di fuga. È il cinema. Rhonda, la segretaria dell’agenzia Stella Musante Casting, gli segnala un provino per un ruolo differente dal solito. Non sfugga la contraddizione: prima viene espressamente detto che ai neri sono riservati i personaggi peggiori, come i teppisti e gli spacciatori, poi la stessa Rhonda (nera e con un figlio da crescere da sola, una tipologia di donna ricorrente in questo capitolo di Them) invita il suo amico a farsi avanti. Per il ruolo di assassino seriale.

Non si può negare che Edmund accolga l’invito con profondo entusiasmo. Durante una cena a due, l’aspirante attore fa le prove generali, spaventando a morte Rhonda. Edmund ha un rapporto complesso con le donne. Alla fine non ottiene la parte, peraltro secondaria, nonostante il suo impegno a sembrare effettivamente pazzo. Poi, qualcosa nella sua vita cambia. Va alla ricerca del suo padre adottivo. Lo trova. È un bianco ricco e famoso, uno psicologo, che ha scritto un libro sulle persone… come Edmund.Perché mi hai lasciato il giorno del mio dodicesimo compleanno? Perché non mi hai dato fondamenta solide? Il padre rivela di non avercela fatta. Di essersi arreso di fronte alle intemperanze emotive di Edmund. Di averlo scartato.

Nel quarto episodio assistiamo a un momento curioso. Edmund è fermato dalla polizia mentre molesta una prostituta. Gli agenti hanno il sospetto che sia il Southside Slayer. Allora lui recita un monologo autoaccusatorio. È perfetto. Intanto, nella stanza adiacente, altri poliziotti stanno visionando le VHS sequestrate a casa sua. Le registrazioni mostrano Edmund impegnato nello stesso monologo. Edmund su nastro è disastroso. Ai provini, davanti alle sue magre figure, un cameraman non riesce a resistere e ridacchia. Il suo nome è Donovan e presto scoprirà di avere un appuntamento con una buca nel deserto.

La seconda stagione di Them si rivela macchinosa. La satira è spuntata. Gli attori fanno quello che possono per tenere insieme una trama improbabile. Il salto nel sovrannaturale non è esente da trovate un po’ goffe, ad esempio il mascheramento simil-voodoo dell’uomo dei capelli rossi. Un demone. Che a ben vedere ricorda una bambola di pezza.

Ragged Ann e Ragged Andy, due bambole fortunate e bruttarelle che rappresentavano due fratelli inseparabili, nella serie occupano un posto importante. Accanto a loro fu introdotto un terzo personaggio, dai forti aspetti caricaturali. Una black mammy. Questa figura risale ai tempi della segregazione razziale. Docile, premurosa, sottomessa, relegata in casa… queste sono alcune delle caratteristiche stereotipate di una mammy dalla pelle nera. In Them: The Scare qualcuno perde il lavoro per aver rifiutato di vendere bambole simili. Più frequente, però, che nella serie qualcuno perda la vita. O direttamente… la testa.

Alcune persone scelgono il diavolo e fanno cose terribili, dice il detective Diaz a proposito del caso di esorcismo che sta seguendo con la detective Reeve, che vede coinvolto un ragazzino di dodici anni, Benny Alvarez. Eh sì, mancavano solo i latinos per completare il mosaico dei perseguitati. La sequenza del tragitto verso l’ospedale è traumatizzante. Deborah Ayorinde gira otto episodi con la stessa espressione in volto, tra il terrorizzato e l’incredulo. L’unica espressione plausibile davanti a mostruosità simili.

Per riassumere il senso: a qualcuno va bene e ad altri va male, perché a molti è negata la possibilità di stare meglio (Empatia? Amore? Cure psichiatriche?). Inoltre, ritorna l’abusato tema del doppio. Dawn combatte contro un ospite inquietante che alberga dentro di sé, la parte oscura strappata alla propria carne, il fratellino-diavoletto nascosto nelle viscere… Tutti soffriamo di stereotipi, ma chi subisce la tirannia del pregiudizio sono in primis le minoranze, i cui tratti “identitari” vengono fissati dalla produzione culturale, dal cinema e perfino dall’industria dei giocattoli. L’orrore è l’escrescenza di un sistema sociale intimamente razzista. Il sovrannaturale è l’iperbole, tutto sommato posticcia, della rappresentazione del male.

Venendo al tempo presente, anche l’intelligenza artificiale è stata messa sotto accusa. Gli algoritmi non sarebbero esenti da condizionamenti “razzisti”. Una ricerca del 2022 pubblicata da Amnesty International ha rivelato che gli abitanti di New York City residenti in quartieri dove le perquisizioni sono più frequenti risultano maggiormente esposti alle tecnologie di sorveglianza di ultima generazione, basate sul riconoscimento facciale. La colpevolizzazione assiomatica del soggetto, ovvero la possibilità di essere sospettati di un crimine sulla base di elementi probatori costituiti in larga prevalenza da features implicitamente “etniche”, non è più distopia. Questo sì che è uno scenario… da paura!

Titolo originale: Them: The Scare

Numero di episodi: 8

Durata: 32-55 minuti l’uno

Distribuzione: Prime Video

Uscita in Italia: 26 aprile 2024

Genere: Anthology, Horror

Consigliato a chi: va sempre in giro con un registratore portatile, allinea alla perfezione le matite sulla scrivania, ha un amico immaginario e se ne vanta.

Sconsigliato a chi: trova disturbante la zuppa di pomodoro, non conosce il paradigma della casa sana, preferisce non appendere specchi in casa.

Visioni e letture parallele:

  • Una città inventata dal cinema, il cinema inventato da una città: da non perdere il bellissimo documentario Los Angeles Plays Itself di Thom Andersen, disponibile su Mubi.
  • Trent’anni dopo il pestaggio di Rodney King, l’assassinio di George Floyd ha scatenato di nuovo la rivolta: Il ginocchio sul collo. L’America, il razzismo, la violenza tra presente, storia e immaginari di Alessandro Portelli (Donzelli editore, 2020).

Una frase: “da quando sono stato a casa tua non vedo altro che sangue” (Edmund).

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